STRESS! AH‑AAAH…
Veramente Freddie Mercury diceva Flash!, cantando l’epopea fumettosa di un eroe biondo abbagliante che salva l’universo sfidando a colpi di laser e battutacce un perfido tiranno intergalattico vestito come il Divino Otelma.
Stress, dicevamo: blackout della creatività, intasatore del workflow, arcinemico delle deadline. Non serve viaggiare verso galassie lontane per beccarsi questa specie di subdolo virus: basta aprire la posta elettronica il lunedì mattina. Solo i monaci zen e Carlo Conti ne sono immuni.
Eppure lo stress non è (solo) un nemico. È come il carburante di un razzo: può spingerti in orbita, se non ti fa esplodere sulla rampa di lancio. Tutto dipende da come lo gestisci. Chi regge? Chi crolla? Chi prende in mano la situazione? Non solo questione di nervi saldi ma anche di capacità di autoregolarsi. Ecco perché vogliamo parlarne.
Cosa intendiamo per “regolazione dello stress”
Quando si parla di stress in ambito lavorativo, spesso lo si intende in modo indistinto: troppi stimoli, poco tempo, pressione crescente. Ma per comprenderlo davvero – e valutare chi lo gestisce al meglio – è utile distinguere due competenze complementari:
- Tolleranza allo stress (stress tolerance): è la capacità di reggere la pressione senza perdere lucidità. Serve a non farsi travolgere, a mantenere la barra dritta anche con il mare forza nove. È la base della resilienza, quella che ti permette di “tenere botta” anche nelle giornate più burrascose. Keanu Reeves in qualsiasi talk show: lo travolgono di domande, fan impazziti, aneddoti bizzarri… e lui? Zen. Sguardo calmo, tono basso. Neanche una piega.
- Gestione dello stress (stress management) è il passo successivo. Non si limita a farci resistere, ma interviene attivamente per regolare lo stato interno. Chi possiede questa competenza sa dosare energie, prevenire il sovraccarico e adottare tecniche consapevoli per mantenere l’equilibrio. Serena Williams sotto 5-1 nel set decisivo. Si prende il tempo, rallenta il gioco, cambia tattica. Non subisce la pressione: la orchestra.
La prima è difensiva, la seconda è strategica. Insieme permettono di affrontare situazioni ad alta pressione con maggiore efficacia, evitando reazioni impulsive, blackout decisionali o rigidità che compromettono performance e relazioni.
Stress regulation ≠ autocontrollo
Le due cose non vanno confuse. Resistere alla tentazione di urlare contro un collega che ti ha appena segnalato un errore alle 18:29 di venerdì è autocontrollo. Riuscire a restare lucido dopo tre riunioni (una live tipo death match e due in video-call con la rete a singhiozzi), 2 deadline mancate e una notifica Slack che suona come la sigla dell’Apocalisse è regolazione dello stress.
Tornando seri, l’autocontrollo è il piede sul freno che impedisce di schiantarsi contro una reazione impulsiva, distruttiva, socialmente sconveniente. Trattiene l’impulso grezzo prima che prenda il volante.
La regolazione dello stress, invece, è il sistema di ammortizzatori che impedisce all’intero veicolo di sobbalzare a ogni buca o curva a gomito. Serve a mantenere l’assetto stabile anche su strade imprevedibili, quando l’ambiente esterno cambia di colpo e la tenuta mentale è tutto.
Un professionista che sa regolarsi non solo “non esplode”. Pianifica, gestisce l’energia, distribuisce gli sforzi, mette in pausa (e non in stand-by) l’ansia.
Perché questa skill è cruciale in azienda
Perché lo stress, in azienda, non è un’eccezione. La dura verità. È un rumore di fondo sempre presente. Scadenze che si accavallano, priorità che si ribaltano, imprevisti che non suonano il campanello. La pressione è una costante nei contesti ad alta complessità. E se pensi di poterla sgonfiare con un abbonamento all’ultima app-camomilla da cinque stelle sul play-store, sei come un pompiere che affronta un incendio con la pistola ad acqua.
Saperla regolare fa la differenza tra chi resta lucido e chi si chiude in un loop emotivo. Tra chi prende decisioni ponderate e chi le prende di fretta. Tra chi guida il team e chi rischia di travolgerlo con la propria ansia. Non è (solo) questione di sopravvivenza. È questione di performance sostenibile. In termini concreti, la capacità di regolare lo stress si traduce in:
- Miglior problem solving: la mente resta più agile, anche sotto pressione.
- Leadership credibile: chi mantiene la calma diventa un punto di riferimento per il team.
- Meno errori, più efficienza: lo stress mal gestito distorce la percezione e mina la precisione.
- Comunicazione efficace: chi regola lo stress non alza la voce, alza il livello.
- Cultura organizzativa più sana: lo stress è contagioso, ma anche la stabilità.
Un’azienda che sa valutare e potenziare questa competenza si assicura non solo un ambiente più resiliente, ma anche più strategico. Perché chi riesce a regolare lo stress riesce a far funzionare bene cose e persone in ogni situazione. Ed è esattamente quel tipo di profilo che ogni HR dovrebbe imparare a riconoscere. Magari prima che sia il caos a renderlo evidente.
La WHO ha inserito la gestione dello stress tra le abilità chiave per il benessere lavorativo nel XXI secolo. Non è (più) un nice to have: è un vantaggio competitivo.
Come si osserva nel contesto lavorativo
“Ottima gestione dello stress” è un classico nei CV. Come “ottima conoscenza del pacchetto Office”. Peccato che non funzioni così. Insomma, non è che Nietzsche abbia risolto i suoi problemi solo perché scriveva del superuomo.
Per capire davvero se una persona sa regolare lo stress, serve osservarla mentre lavora sotto pressione. Perché nei momenti di routine questa competenza ovviamente non emerge. È quando il sistema aziendale alza la temperatura che la regolazione dello stress si manifesta. Ecco alcune situazioni in cui si vede chi ha l’aria condizionata interna… e chi suda panico:
- Nei momenti critici: quando qualcosa va storto e c’è da reagire. Chi sa regolarsi mantiene lucidità e comunicazione chiara, anche se il progetto slitta, il cliente impazzisce o l’ennesimo tool “non funziona”.
- Nel day-by-day: non solo durante le emergenze. Anche la gestione delle priorità, il rispetto delle scadenze e la risposta a carichi elevati di lavoro parlano chiaro. Chi si regola bene non trasforma ogni urgenza in un dramma.
- Nelle interazioni con il team: una persona capace di regolare lo stress non “scarica” tensione sugli altri. È quella che, quando il clima si scalda, fa da termostato anziché da combustibile.
- Nella qualità decisionale: lo stress influisce sul giudizio. Osserva chi riesce a ponderare e comunicare scelte anche sotto pressione: lì si vede il vero equilibrio.
Ma un momento, per un pelo non ci sfuggiva: la regolazione dello stress non coincide con la calma apparente. Ci sono poker face che dentro implodono come una supernova. Non è di loro che abbiamo bisogno. La differenza la fanno le azioni osservabili, non il tono della voce. Perciò, nei colloqui, negli assessment e nelle dinamiche di gruppo, la regolazione dello stress non si ascolta: si osserva.
I segnali? Stanno in come la persona si comporta quando qualcosa va storto, quando il tempo stringe, quando la tensione sale. Ecco alcune domande-guida che aiutano a decifrare le sue reazioni:
- Davanti a un imprevisto, si irrigidisce o si adatta?
- Sotto pressione, cambia modo di comunicare?
- Mantiene lucidità e pensiero critico anche nel caos?
- Riesce ad aiutare gli altri a riorganizzarsi?
Le risposte non stanno nelle parole, ma nei comportamenti. E chi sa cosa guardare, vede molto di più.
Come si allena la regolazione dello stress?
Ok, adesso viene il bello. Perché qui entriamo nella nostra comfort zone, fatta di scenari complessi, pressione alle stelle, lancette che ruotano vertiginosamente e persone che imparano a stare al centro del vortice senza farsi travolgere.
Questa soft skill si allena esattamente come una competenza tecnica: in contesti realistici, con ostacoli veri (anche se simulati) e dinamiche che attivano mente ed emozioni.
I business game e le simulazioni gamificate sono perfetti per questo. Mettono alla prova il comportamento sotto pressione, rendono visibili reazioni, scelte e strategie di adattamento.
Perché quando il tempo scarseggia, le variabili si moltiplicano e il team guarda a te per una decisione, non puoi improvvisare e sperare d’azzeccare la prossima mossa, devi ponderare e agire velocemente e in maniera appropriata.
E se riesci a farlo, in quel momento capisci che non stai solo gestendo una dinamica di gioco. Stai regolando te stesso.
Per questo crediamo – e lo conferma anche l’American Psychological Association, nei suoi studi sulla formazione esperienziale – che la simulazione non sia solo uno strumento formativo: è un laboratorio emozionale controllato, dove è possibile sperimentare pressioni simili a quelle reali, ma con la libertà di sbagliare, imparare e migliorare. Insomma, la simulazione non è un rifugio, è un acceleratore.
Allenare la regolazione dello stress in un ambiente simulato non significa semplicemente “fare pratica”. Significa guardarsi dentro, riconoscere il proprio modo di reagire quando qualcosa va storto, quando il tempo stringe, quando le aspettative salgono. È in quel microclima ad alta pressione che impari a decifrare i messaggi in codice che mente e corpo ti trasmettono sotto attacco, senza andare nel panico. Un addestramento che ti insegna a mantenere il controllo del campo e a non confondere il fragore con la fine dell’ordine.
Perché in quei momenti, quando la situazione si fa incandescente, hai due scelte: lasciare il comando al “Generale Istinto” – impulsivo, imprevedibile e spesso rumoroso – o attivare il “quartier generale del pensiero strategico”. E guidare la manovra con lucidità.
E mentre chi gioca impara a leggere i propri segnali interni e a scegliere risposte più consapevoli, chi osserva – coach, HR, assessor – ha davanti una finestra nitida sulla tenuta emotiva, la capacità di adattamento e la prontezza decisionale.
È questo il valore della simulazione: un laboratorio a doppio raggio. Allena e rivela.
Il talento si allena a restare centrato anche sotto pressione. L’azienda scopre chi ha le carte giuste per restarci in situazioni reali. E ha il tempo di capirlo prima che il caos si verifichi davvero.
“It’s not the notes you play, it’s the notes you don’t play” — Miles Davis
In contesti ad alta complessità non vince chi fa più rumore. Vince chi sa ascoltare, filtrare, dosare. Perché il valore della performance – proprio come nella musica – non è dato solo da ciò che si fa, ma da ciò che si sceglie consapevolmente di non fare.
Nel caos, l’istinto ti spinge a riempire ogni spazio, a dire qualcosa, a decidere subito. Ma chi sa regolare lo stress sa che la qualità dell’azione nasce dalla qualità dell’attenzione. E questo richiede disciplina emotiva, visione lucida, capacità di stare in pausa senza perdere il ritmo.
È una forma di leadership silenziosa, ma potentissima. Ed è ciò che distingue chi subisce la pressione da chi la trasforma in energia direzionale.
In una sinfonia aziendale fatta di deadline, scelte complesse e interazioni continue, il talento che sa “suonare lo stress” senza “essere suonato” è quello che tiene insieme l’orchestra. E tu, HR, lo sai, non sempre puoi riconoscerlo a orecchio.
Proattivittà, la skill viva e attiva
Non è fare tanto. E nemmeno avere l’alzata di mano caricata a molla. La proattività è saper agire prima che le cose accadano. È l’arte di leggere i segnali deboli, prevedere i problemi e attivarsi senza che nessuno lo chieda. Se stai pensando a una versione LinkedIn di Nostradamus – “Strategic foresight dal 1503, autore di previsioni che nessuno capisce… finché non succedono” – sei come una Jeep anni 80… parecchio fuori strada. Come direbbe Mary Poppins, tirando fuori un estintore dalla borsetta: “La proattività non è un fuoco da spegnere, è un cerino da non accendere.
3 falsi miti sulla proattività
Dalla macchinetta del caffè alla stanza della stampante, dalla reception all’anticamera del bagno, le leggende d’ufficio su questa skill si muovono veloci e incontrollate, passando di bocca in bocca come un pettegolezzo aziendale. Si dice che:
- È una dote innata → Nossignore, invece si può apprendere e allenare.
- È sinonimo di iperattività → Ma agire tanto ≠ agire bene e con anticipo.
- Serve solo nei ruoli di responsabilità → Anche uno stagista può essere proattivo (e brillare).
Insomma, nei corridoi la proattività viene spesso raccontata male. Sta a noi riscrivere la storia, dotandoci degli strumenti giusti per riconoscerla e coltivarla. Perché i veri talenti non aspettano che il problema si presenti. Gli vanno incontro, come il “Professore” de La casa di carta, con in testa un piano per affrontarli.
Perché la proattività serve nelle organizzazioni complesse?
In un ambiente stabile, essere proattivi è utile. In un ambiente instabile, è indispensabile. Oggi le aziende operano in contesti mutevoli come quei sogni in cui cambia tutto ogni volta che infili una porta. E se ti volti per tornare indietro, puff, la porta non c’è più. In uno scenario così, non puoi aspettare l’ordine scritto o il brief perfetto. Serve lucidità, intuito e l’abitudine ad agire prima che il contesto cambi di nuovo. Chi è proattivo:
- Intercetta le criticità prima che diventino crisi.
- Accelera l’innovazione.
- Aumenta la coesione e la resilienza del team.
In pratica è proattiva quella persona che, quando il contesto cambia forma, non gira e rigira la mappa per capire se esiste ancora un percorso valido ma ne disegna una nuova appena avverte che stanno per manifestarsi i mutamenti. Ed è proprio questo lampo d’anticipo che fa la differenza.
Le skill che nutrono la proattività
La proattività è un mix alchemico di competenze trasversali. Non nasce da una singola attitudine, ma dalla combinazione di più skill che, agendo insieme, trasformano un comportamento reattivo in un atteggiamento strategico. Dentro questo blend troviamo:
- Pensiero critico, per leggere la situazione con lucidità e riconoscere i segnali deboli;
- Iniziativa personale, per agire senza attendere istruzioni;
- Visione sistemica, per valutare le conseguenze sul medio-lungo termine;
- Gestione del tempo, per capire quando è il momento giusto per intervenire.
Proprio come in un laboratorio alchemico, ciò che conta non è solo avere tutti gli ingredienti, ma saperli dosare in modo armonico e calibrato. Perché essere proattivi non significa fare di più, ma fare meglio e prima, con un’intenzione chiara e ben posizionata nel contesto.
E proprio perché nasce dall’interazione tra skill che sono sviluppabili, osservabili e misurabili, la proattività si può allenare. Serve metodo, serve esperienza, servono strumenti capaci di simulare scenari reali. Solo così, da una miscela grezza di competenze, si può innescare quella trasmutazione che rende l’azione istintiva una scelta consapevole. È lì che la proattività smette di essere una dote rara e diventa oro per l’organizzazione.
Simulazioni e gamification: palestra del mindset proattivo
Puoi leggere quanto vuoi su questa competenza, ma se non la sperimenti in contesto, non la sviluppi davvero. Essere proattivi significa agire sotto pressione, in ambienti complessi, dove il tempo è poco e le variabili molte. Solo le esperienze immersive, che simulano scenari realistici, ti mettono nella condizione di prendere l’iniziativa senza seguire un copione. Non basta sapere cosa fare. Bisogna provarlo, sbagliare, capire, correggere. Meglio farlo in un contesto simulato, no? Così puoi osare senza rischiare di fare danni.
Le simulazioni gamificate sono scorciatoie verso la consapevolezza. Perché in quei giochi non stai passando il tempo: stai decidendo, rischiando, collaborando, risolvendo. La dinamica è questa:
- Entri in uno scenario simulato realistico
- Ti ritrovi davanti a una sfida che rompe gli schemi
- Devi agire prima che qualcosa vada storto
- Capisci come funziona davvero la tua mente
Ogni scelta che fai diventa un feedback su chi sei. Il riflesso proattivo è come la memoria muscolare: non è istinto, è tecnica allenata. Più lo alleni in scenari realistici, più ti verrà naturale usarlo quando serve davvero. E le simulazioni immersive possono offrire quel carico progressivo per trasformare ogni incertezza in sicurezza, ogni rallentamento in slancio.
3 domande per sapere se sei una persona proattiva
Non serve un test psicoattitudinale da 90 minuti. Bastano tre domande ben poste – e ben ragionate – per iniziare a capire se nella tua quotidianità professionale agisci con anticipo o per reazione. Ready? Go!
1. Tendi a rispondere o ad anticipare?
Se ti attivi solo quando il problema si è già manifestato, sei un ottimo pompiere. Ma la proattività richiede un altro approccio: quello dell’artificiere.
Chi è proattivo non aspetta l’allarme: osserva i segnali deboli e si muove prima che suonino le sirene.
Ma puoi farlo solo se riesci a “leggere” una situazione e prevederne le criticità prima che si concretizzino.
2. Ti attivi anche quando non hai istruzioni precise?
Chi aspetta il brief perfetto rischia di restare fermo. In un mondo complesso e incerto, è l’iniziativa personale a fare la differenza.
I proattivi non cercano un’autorizzazione, ma una leva. Lanciano idee, fanno il primo passo, esplorano le zone grigie.
Questo perché riescono a individuare da soli un margine d’azione appropriato.
3. Sai distinguere un’intuizione da un’azione impulsiva?
La proattività non è agire a caso o per frenesia. È agire presto, sì, ma con cognizione di causa. Serve rapidità, certo, ma anche lucidità. Chi è proattivo ha un tempismo allenato, perché è il pensiero critico a guidarlo.
Sa distinguere tra una reazione emotiva e una decisione consapevole.
Ti riconosci nelle risposte a queste domande? Ottimo, allora continua ad allenarti.
Hai qualche dubbio? Va bene, dai, perché la consapevolezza è già un primo passo. E se dentro di te ha detto “vorrei esserlo di più”, ecco una buona notizia: puoi, basta allenarsi.
Mini-checklist per team leader e HR
Ok, fin qui abbiamo parlato di proattività individuale. Ma ora tocca a te che guidi i team o valuti le persone: stai davvero creando un contesto che la favorisce?
Fai questo mini-check:
- Incoraggio chi previene o solo chi risolve?
- Lascio spazio all’iniziativa o la scoraggio senza accorgermene?
- Premio le idee o solo le esecuzioni perfette?
- So distinguere chi si attiva da chi reagisce anche bene ma a scoppio ritardato?
Se hai messo anche solo un “ni”, forse è il momento di rivedere la formula. Perché il talento non va solo trovato: va coltivato. E la proattività, come certi fermenti lattici, dà il meglio di sé in un ambiente vivo, attivo, stimolante.
Pensiero analitico: la soft skill che guida le decisioni migliori
“Analizziamo la situazione”. Non è solo un invito all’ordine. È il momento in cui si decide da che parte guardare. Ore 8:45, war room improvvisata nella sede di una multinazionale farmaceutica. I volti sono tesi, le tazze di caffè fumano. La campagna marketing è già partita, ma la logistica arranca e i vincoli normativi si complicano. L’imminente lancio di un nuovo prodotto rischia di deragliare. Ogni reparto ha la sua versione ma manca la sintesi, non c’è orientamento. E i dati, senza uno sguardo che sappia leggerli davvero, sono muti. Qualcuno dovrà scomporre il caos e decifrare i dettagli. E per farlo serve qualcosa di più che l’esperienza: è il momento in cui emerge – nitida e potente – una competenza spesso trascurata nei curriculum: il pensiero analitico.
Che cos’è il pensiero analitico secondo la neuropsicologia
Nel linguaggio delle neuroscienze, il pensiero analitico è una funzione avanzata della mente che consente di esaminare un problema complesso suddividendolo in componenti più semplici e comprensibili. Uno dei riferimenti teorici più noti è il modello dei “due sistemi” elaborato dallo psicologo Daniel Kahneman. Ne abbiamo parlato già altre volte in questo blog. Secondo il premio Nobel, l’efficienza della nostra mente dipende dall’interazione tra il veloce Sistema 1, intuitivo e automatico, e il più lento Sistema 2, che presiede alle attività deliberate e riflessive.
È proprio il Sistema 2 che si attiva quando dobbiamo ragionare in modo logico, valutare dati contraddittori, prendere decisioni ponderate. Questo tipo di pensiero non scatta in automatico: richiede attenzione cosciente, controllo e uno sforzo cognitivo che spesso il nostro cervello cerca di evitare.
Numerosi studi (Evans & Stanovich, 2013; Diamond, 2016) dimostrano che questa abilità è direttamente correlata a capacità come la memoria di lavoro, la flessibilità cognitiva e il controllo inibitorio. In parole semplici: pensare analiticamente significa mettere in pausa l’istinto, trattenere le prime conclusioni e guardare in profondità i dati a disposizione.
Per chi lavora nelle risorse umane, capire quanto un candidato o collaboratore sia capace di attivare questo tipo di pensiero può fare la differenza tra reagire e agire strategicamente.
Dal campo di battaglia alla sala riunioni: il pensiero analitico nella storia
Il pensiero analitico non è una moda nata con i big data. Ha radici profonde e penetranti come le daghe dei generali antichi. Ti ricordi di Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano? L’uomo che sconfisse Annibale e cambiò il destino di Roma nella seconda guerra punica. Scipione non vinse con la forza ma con l’analisi. Fu il primo a capire che il nemico si affronta dove è meno a suo agio. Studiò le mappe, interpretò i movimenti delle truppe, ma soprattutto colse i segnali deboli, (logistici, politici, culturali) che altri trascuravano. Come il potenziale strategico di un giovane pretendente al trono di Numidia, Massinissa, che trasformò da alleato instabile a risorsa decisiva nella vittoria contro Cartagine.
Scipione era un analytical thinker ante litteram e la sua vittoria a Zama fu una lezione di pensiero multilivello: vedere oltre le truppe, oltre le battaglie, oltre l’immediato. Una lezione che vale anche oggi. Perché quello sguardo lucido, capace di leggere la complessità, è lo stesso che oggi cerchiamo nei decision maker del presente, quei professionisti che sanno muoversi negli scenari VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous) con disinvoltura e senza perdersi.
Perché il pensiero analitico è un asset cruciale in azienda
In contesti organizzativi sempre più interconnessi e ad alta densità informativa, il pensiero analitico si rivela una soft skill ad alto impatto. È ciò è determinato dal fatto che consente di:
- Comprendere la radice dei problemi anziché limitarsi ai sintomi.
- Valutare scenari multipli, simulare conseguenze, prendere decisioni informate.
- Lavorare efficacemente con dati, dashboard, KPI, senza perdersi nei dettagli.
In ambito HR, il pensiero analitico non è solo utile, è decisivo. Saper leggere pattern nei dati di engagement, turnover o performance consente di prevenire criticità e indirizzare investimenti formativi mirati. Inoltre, nei processi di selezione e assessment, aiuta a distinguere chi sa affrontare la complessità da chi la subisce.
Skill in sincronia: il pensiero analitico nel sistema del problem solving
Il pensiero analitico è un ingranaggio strategico, ma non può funzionare isolato. Solo quando si muove insieme con altre competenze chiave mette in moto il meccanismo del problem solving. Il pensiero critico è la rotella più prossima, valuta ciò che è stato appena scomposto, ne testa la coerenza e scarta le ipotesi deboli. Il decision-making corrisponde a quella parte di trasmissione che converte l’analisi in azione: seleziona una direzione e imprime al sistema una spinta concreta. Intorno, altre soft skill – come la comunicazione, la collaborazione e la flessibilità cognitiva – fanno da lubrificante, permettendo al sistema di non incepparsi, anche sotto pressione.
Per capire meglio, basta pensare a un project manager che, durante una riunione, scopre che il ritardo non è dovuto alla produzione ma a una sovrapposizione nella catena di approvazione. Senza accusare, propone una riorganizzazione del workflow e un sistema di verifica intermedio. Ecco, questo è pensiero analitico che si traduce in leadership.
Come si osserva il pensiero analitico
Non è una competenza che si lascia intercettare con facilità, soprattutto durante un colloquio. Il pensiero analitico si rivela più nei comportamenti che nelle parole, attraverso segnali che, per un occhio attento, funzionano da marcatori. Lo si coglie quando una persona formula domande che scavano in profondità (“Quali sono le variabili critiche in questo processo?”), struttura mentalmente le informazioni, segmenta, dà priorità, rende espliciti i propri ragionamenti (“Se A, allora B. Ma se interviene C, la sequenza cambia”). Chi pensa analiticamente mostra rigore anche nell’incertezza: non cerca subito la risposta ma prima il contesto in cui una possibile risposta abbia senso.
Tutto questo non si legge in un curriculum. Ma può emergere in scenari simulati, dove la complessità non rimane ferma sul piano teorico ma diventa azione. Ecco perché i momenti di valutazione esperienziale sono una necessità.
Caso studio: trasformare l’engagement in performance
Chiunque sa che dipendenti coinvolti producono risultati migliori. Ma misurare quanto e come l’engagement impatti realmente sulle performance è tutta un’altra storia e richiede il ricorso al pensiero analitico, applicato su larga scala. È esattamente ciò che ha fatto Clarks, lo storico brand di calzature britannico, con una rete retail distribuita in tutto il mondo.
L’azienda ha condotto una massiccia operazione di people analytics, analizzando oltre 450 variabili per ciascun punto vendita. Tra i dati raccolti: livelli di engagement, performance di vendita, composizione del team, anzianità del manager, rotazione del personale. L’obiettivo era ambizioso: individuare i fattori che determinano davvero le differenze tra i negozi ad alte e basse prestazioni.
I risultati non hanno lasciato dubbi: un aumento dell’1% nell’engagement medio dei dipendenti generava, in media, un incremento dello 0,4% nelle performance del punto vendita. Una correlazione forte, statisticamente significativa, e soprattutto traducibile in strategia.
Da questa intuizione analitica, Clarks ha sviluppato un toolkit di supporto per i manager (una raccolta di strumenti e linee guida pratiche) pensato per aiutarli a:
- leggere correttamente i dati di engagement del proprio team;
- intervenire su aree critiche con azioni pratiche e misurabili (es. ottimizzare la composizione del team, migliorare la comunicazione interna, semplificare i processi decisionali);
- replicare nei negozi meno performanti le pratiche più efficaci dei team ad alta efficienza.
Questo caso dimostra in modo inequivocabile che il pensiero analitico, se radicato nella cultura HR, può diventare una leva trasformativa. Non si tratta solo di leggere dati, ma di mettere in relazione informazioni qualitative e quantitative per orientare azioni strategiche. In un settore in cui spesso si agisce per esperienza (o per consuetudine), vedere con occhi analitici ha prodotto un vantaggio competitivo reale, misurabile, replicabile.
La gamification come acceleratore del pensiero analitico
Valutare (e sviluppare) il pensiero analitico richiede ambienti dinamici, in cui il candidato o la risorsa interna possa interagire con variabili complesse, fare scelte, analizzare dati. È qui che entrano in gioco gli strumenti di simulazione manageriale che sviluppiamo noi di Artémat.
Nei nostri Business Game, i player devono gestire un’azienda virtuale in un mercato competitivo. Ogni round implica decisioni strategiche che influenzano KPI finanziari, produttivi e reputazionali. A ogni ciclo, emergono “eventi imprevisti” che impongono una ricalibrazione analitica della strategia.
Questo high-fidelity playground permette agli HR di osservare il pensiero analitico in azione (quali dati vengono letti? come vengono interpretati?) e ai membri del team di lavoro di allenarlo. Così i partecipanti apprendono a isolare variabili rilevanti in ambienti incerti, simulare scenari (“what-if”) e adattare il proprio modello decisionale in base ai feedback del sistema. Un assessment tradizionale non potrebbe fornire lo stesso livello di profondità. Ecco perché strumenti del genere sono fondamentali nelle strategie HR più evolute.
La competenza che “vede attraverso”
Tornando alla war room della casa farmaceutica, sbloccare una situazione di stallo come quella immaginata nell’incipit non è questione di job title, né di anzianità. Non per forza. Ci vuole la capacità di leggere il contesto in maniera analitica. E per questo non serve una lente diversa, ma occhi che vedono diversamente.
Quella descritta è una situazione di fantasia ma fino a un certo punto: casi simili si sono realmente verificati (e si verificano) in grandi aziende farmaceutiche, come dimostra un’analisi condotta da Indegene ed Everest Group (2023). Essa ha messo in luce che fattori come la supply chain, i vincoli normativi e le scelte di marketing possano minare (o salvare) il successo di un lancio, rendendo il pensiero analitico una risorsa decisiva. Insomma, in tempi in cui la complessità è la norma, chi sa leggere sotto la superficie non è solo utile. È necessario.
Predire il potenziale del candidato
Prima viene scaraventato violentemente contro una colonna del dojo. Poi precipita rovinosamente da un grattacielo.
Infine, distratto da una conturbante sconosciuta vestita di rosso, per un pelo non si becca una pallottola in fronte. In Matrix, Neo fallisce tutte le prove cui viene sottoposto.
Sono simulazioni immersive e realistiche (ti suona familiare?) che mettono in luce abilità e debolezze del candidato al ruolo di “eletto”. Quelle prove predicono come egli si comporterà nelle azioni reali. Si fa per dire, trattandosi di Matrix.
Anche i Business Game sono test immersivi e funzionano allo stesso modo: replicano realisticamente contesti aziendali dove i partecipanti, “giocando”, rivelano il proprio potenziale e il modo in cui affronterebbero (per esempio) stress e imprevisti nel lavoro reale.
Ciò significa che sono strumenti predittivi incredibilmente efficaci. Inoltre più un test riproduce in maniera realistica le dinamiche aziendali, più è in grado di predire la performance futura. Tutto ciò è confermato da numerosi studi.
Ad esempio, una ricerca pubblicata su Computers in Human Behavior (2020) ha rilevato che i punteggi ottenuti in un “serious game” mostrano una correlazione significativa con i risultati che poi si ottengono effettivamente sul campo.
Perché funzionano? Perché i Business Game ricreano situazioni reali senza le pressioni di un esame formale. Qui emergono le vere reazioni dei candidati, libere da ansia, paure e auto-censura: come affrontano problemi, collaborano e decidono. E i dati comportamentali che si possono raccogliere in queste sessioni spesso riflettono fedelmente le performance future.
Ma un momento, torniamo un attimo a Matrix: Neo fa cilecca durante i test. Beh, tanto nella realtà quanto nella finzione cinematografica, le simulazioni non sono quiz “pass/fail”. Se Morpheus avesse considerato quel risultato come predizione, il film sarebbe finito dopo neanche un’ora!
Il leader della resistenza umana contro il dominio delle macchine, invece, è l’emblema del recruiter che sa il fatto suo. In ottica HR, infatti, il fallimento nella simulazione non esclude necessariamente un candidato: anzi, può essere un’ottima opportunità per osservare come reagisce all’errore, se impara dall’esperienza e quanto velocemente si adatta.
E poi, è davvero indispensabile che il candidato superi la prova al primo tentativo? In fin dei conti, «la prima volta cadono tutti». Ma se durante il test dimostra in qualche modo che è disposto a spingersi oltre i propri limiti, probabilmente la volta dopo riuscirà nel salto. In senso metaforico e non.
Apertura al cambiamento - la forza dell’adattabilità
Nel 1975, un ingegnere di nome Steven Sasson inventò la prima fotocamera digitale.
Era un aggeggio grande come un tostapane, che utilizzava un sensore per catturare le immagini e le memorizzava su una cassetta, simile a quelle dei Walkman. Se riesci a immaginare un frontale fra un mangianastri e un proiettore di diapositive, questo è grossomodo l’aspetto che aveva.
Sasson sapeva di aver creato qualcosa di rivoluzionario. Ma il management dell’azienda per cui lavorava lo accolse con scetticismo. “Carina l’idea, ma chi vorrebbe mai guardare una foto su uno schermo?” dissero, chiudendo il progetto in un cassetto per continuare a puntare sulle pellicole. Kodak dominava il mercato e non voleva rischiare di cannibalizzare il suo core business.
Il resto è storia. Oggi la fotografia digitale è ovunque e Kodak, un tempo sinonimo stesso di fotografia, ha perso il treno dell’innovazione. Perché il cambiamento non aspetta nessuno.
Perché resistiamo al cambiamento?
La vicenda di Kodak è solo uno dei tanti esempi che dimostrano quanto il cambiamento possa essere percepito come una minaccia, anche nelle organizzazioni più strutturate. Ma perché succede? Perché anche di fronte a segnali chiari e opportunità evidenti, individui e aziende preferiscono rimanere ancorati al passato? Ok, basta domande. Adesso qualche risposta.
La prima, almeno in parte, si trova nel nostro cervello. I neuroscienziati hanno dimostrato che il cambiamento attiva l’amigdala, il “reparto paura e stress” dentro la nostra testa. Viene da lì la vocina che ci sussurra: “Hai sempre fatto così, chi te la fa fare? Metti che poi sbagli”. Succede perché ogni trasformazione, anche minima, viene interpretata come un potenziale rischio per la nostra stabilità. Se quest’area cerebrale fosse una stanza, sulla porta ci sarebbe scritto a chiare lettere: “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quello che lascia ma non sa quello che trova…”.
Secondo una ricerca pubblicata su Nature Neuroscience, al nostro amico grigio piace la prevedibilità. Le situazioni note richiedono meno energia cognitiva e sono percepite come più sicure. Quando un’azienda o un individuo si trova di fronte a una svolta, la console nella stanza dei bottoni si illumina come un abete a Natale e il cervello si barrica dietro paratie automatiche, raggi laser e altri meccanismi di difesa per mantenere inalterato lo status quo.
La chiave per abbracciare il cambiamento
Tuttavia non siamo destinati a essere ostaggi di questi impulsi primitivi. La neuroplasticità, ovvero la capacità del cervello di riorganizzarsi in risposta a nuove esperienze, dimostra che possiamo allenarci a diventare più adattabili. Più siamo esposti a cambiamenti, più impariamo a gestirli con meno stress. O meglio, siamo predisposti al cambiamento. Del resto, senza adattabilità come avremmo potuto sopravvivere attraverso le trasformazioni climatiche e ambientali della nostra storia evolutiva? Ma sterzare allo svincolo della via nuova invece di rimanere sulla confortevole, vecchia autostrada abituale è questione di mentalità.
Secondo Carol Dweck, psicologa e autrice di Mindset: The New Psychology of Success, c’è chi ha una mentalità statica (fixed mindset) e chi una mentalità di crescita (growth mindset). I primi tendono a considerare le proprie capacità come immutabili e temono di fallire, per questo evitano il cambiamento. I loro cugini impavidi, invece, vedono il cambiamento come un’opportunità di apprendimento e sviluppo. Trasportando il concetto nel business, le aziende con una cultura del growth mindset sono innovative, resilienti e pronte ad affrontare le trasformazioni di mercato. Non solo sopravvivono ma prosperano.
Una leva strategica cruciale per le aziende
Ovviamente non è mai il singolo individuo a determinare il destino di un’organizzazione, ma il modo in cui essa coltiva il cambiamento, mettendolo ai primi posti del proprio paradigma culturale e trasformandolo in opportunità. Ecco un dato che parla chiaro: uno studio condotto da McKinsey & Company ha rivelato che le aziende con una cultura aperta al cambiamento hanno una probabilità di successo nella trasformazione digitale 2,5 volte superiore rispetto a quelle con una mentalità rigida. Perché? Perché sono in grado di sperimentare, iterare e adattarsi prima che sia troppo tardi.
E se questo ti sembra un concetto ancora un po’ astratto, eccoti un paio di casi concreti. Prendi Microsoft. Nel 2014 l’azienda era ancora ancorata ai suoi prodotti storici (Windows e Office). Ma l’asse del pianeta IT si stava inesorabilmente inclinando nella direzione del cloud computing. Così ha iniziato a nuotare vigorosamente sfruttando le correnti del mercato, trasformandosi rapidamente in una cloud-first company. Oggi Azure, la piattaforma sua cloud, genera oltre il 50% dei profitti aziendali e dà filo da torceread Amazon Web Services e Google Cloud.
Nel mare magnum delle aziende tech c’è anche chi ha scelto di fare come il salmone, pagandone il prezzo. Fino al 2007, Nokia dominava il mercato dei telefoni cellulari, con una quota globale superiore al 40%. Poi arrivò Android, un ecosistema aperto e scalabile. Google propose a Nokia di adottare il suo sistema operativo ma i vertici dell’azienda rifiutarono. Sembra quasi di sentire quali potrebbero essere state le ultime parole famose: “Abbiamo sempre fatto così”. Il risultato? In pochi anni Nokia è quasi scomparsa da quel mercato. Per restare a galla e poi tornare leader, le toccò comunque e tuffarsi verso altri oceani, attuando una trasformazione.
Le soft skill che l’accompagnano
L’apertura al cambiamento non è una skill stand alone, ma parte di un ecosistema più ampio di competenze interconnesse. Ovviamente sai bene che, nelle aziende, il cambiamento è un po’ come quando all’improvviso ti si accende nel cruscotto una spia dal significato ambiguo e il meccanico fa ipotesi su ipotesi, aumentando il tuo senso di smarrimento e facendoti meditare di passare all’elettrico. Raramente arriva in modo prevedibile e lineare e spesso si manifesta sotto forma di incertezze, criticità da risolvere e nuove opportunità da cogliere al volo. Per questo motivo, per essere davvero efficace, l’apertura al cambiamento deve camminare fianco a fianco con altre soft skill fondamentali complementari.
Il pensiero critico aiuta a valutare con lucidità le opzioni disponibili, distinguendo i rischi reali dalle resistenze infondate. Il problem-solving consente di tradurre l’incertezza in soluzioni concrete, trasformando gli ostacoli in opportunità di crescita. La leadership, invece, gioca un ruolo chiave nell’orientare team e organizzazioni attraverso le transizioni, creando un ambiente in cui il cambiamento non è percepito come una minaccia ma come un’opportunità. Infine, la gestione dello stress e la flessibilità cognitiva permettono di adattarsi velocemente senza perdere di vista obiettivi e strategie. In questo mosaico di competenze, l’apertura al cambiamento è la tessera centrale: senza di essa, il rischio è quello di restare immobili mentre il mondo si muove avanti.”
Da processo stressante a esperienza eccitante
Affrontare il cambiamento non è solo una questione di competenza, ma anche di mindset. La mentalità si può acquisire, consolidare. Per questo la gamification rappresenta un approccio sempre più apprezzato nel mondo aziendale per allenare la flessibilità mentale e l’adattabilità. Grazie a strumenti digital HR come quelli progettati da Artémat, i membri dei team aziendali possono sperimentare situazioni di trasformazione e allenarsi a gestire l’incertezza.
Le esperienze immersive offerte dai nostri tool, per esempio, pongono i partecipanti di fronte a sfide che richiedono di abbandonare pattern abituali, pensare fuori dagli schemi e collaborare per trovare soluzioni innovative. Il gioco, in questo senso, diventa un “campo di prova” sicuro ma realistico, dove è possibile sbagliare senza conseguenze negative e apprendere dagli errori.
Inoltre, la gamification aiuta a innescare un meccanismo di gratificazione immediata, che stimola il coinvolgimento e riduce la naturale resistenza al cambiamento. Con il suo potere di trasformare un processo potenzialmente stressante in un’esperienza motivante, questa metodologia ha dimostrato di essere un eccellente catalizzatore per l’adozione di nuove strategie e la gestione delle transizioni.
Stay open-minded
La storia di Kodak con cui abbiamo iniziato ci insegna che l’apertura al cambiamento non è un’opzione ma una necessità strategica. Soprattutto nei tempi che stiamo vivendo, caratterizzati dalle enormi trasformazioni introdotte dalla democratizzazione dell’intelligenza artificiale. Reinventarsi e adattarsi non solo è possibile, ma può diventare un trampolino verso nuovi successi. Come dimostrano le altre due storie che abbiamo raccontato.
Investire nell’apertura al cambiamento significa costruire una cultura aziendale che valorizzi la curiosità, l’innovazione e il coraggio di affrontare l’ignoto. Significa anche avvalersi di strumenti e adottare approcci che favoriscano e valorizzino questo mindset.
Alla fine, non si tratta solo di sopravvivere, ma di prosperare. Le aziende che abbracciano il cambiamento non solo resistono alle trasformazioni del mercato, ma ne diventano protagoniste, guidandole secondo la propria visione. Perché, come abbiamo visto, il cambiamento non aspetta nessuno: meglio essere i primi a mettere a fuoco il futuro che essere immortalati con gli occhi chiusi in una foto sbiadita del passato.
IG for You Challenge 2024: strategia e talento in azione per una sfida avvincente
Tra simulazioni aziendali e momenti di confronto con le imprese, l’evento si conferma un ponte tra università e mondo del lavoro
L’Università della Calabria e Artémat hanno celebrato con entusiasmo la conclusione dell’IG For You Challenge 2024, tenutasi il 14 e il 15 novembre presso il campus universitario. La business game competition ha visto sfidarsi i migliori laureandi e neolaureati in Ingegneria Gestionale di sei università italiane, tra cui il Politecnico di Bari, l’Università di Napoli Federico II, l’Università Parthenope, l’Università di Salerno, l’Università del Salento e l’ateneo ospitante, in una competizione che ha confermato il suo ruolo di ponte tra mondo accademico e realtà aziendale.
La competizione è stata costruita attorno al concetto di “portafoglio di investimento”, una simulazione manageriale in cui i team hanno avuto il compito di gestire un portafoglio aziendale diversificato su tre settori industriali: telecomunicazioni, automotive e biotecnologie. Dopo una prima fase di analisi, i team hanno investito un budget iniziale per acquisire quote di tre aziende, con l’obiettivo di massimizzare il valore complessivo del portafoglio. Nei successivi round, ogni team ha gestito strategicamente le aziende selezionate, con l’obiettivo di incrementarne il valore di mercato.
I partecipanti hanno affrontato la sfida con un approccio manageriale altamente professionale, dimostrando capacità strategiche e operative, un forte spirito combattivo e un’eccezionale attitudine al lavoro di squadra. La competizione è stata particolarmente serrata e avvincente fino all’ultimo round, a testimonianza dell’eccellenza dimostrata dai giovani talenti.
Il primo posto nel ranking se lo è aggiudicato il team amaranto dell’Università del Salento, che si è distinto per la coerenza delle strategie adottate e l’elevata capacità di adattamento alle dinamiche di mercato.
Mentre il riconoscimento per il miglior “Pitch Yourself” è stato conferito a Umile Magarò, studente dell’Università della Calabria, che ha saputo impressionare gli HR delle aziende partner con una presentazione brillante e incisiva, dimostrando eccellenti capacità comunicative e di personal branding.
L’evento è stato arricchito dalla presenza degli HR di Avvale, Fincantieri, Deloitte e Rai, che hanno partecipato attivamente alle varie fasi, offrendo presentazioni aziendali, osservazioni dirette e opportunità di confronto con i partecipanti. Le sessioni di networking, tra cui i momenti di coffee break e la “social dinner” al termine della prima giornata, hanno favorito un dialogo costruttivo e informale, rafforzando il ruolo dell’IG For You Challenge come occasione unica di incontro tra giovani talenti e imprese.
Gli organizzatori hanno espresso soddisfazione per la riuscita dell’evento, sottolineando l’impegno e il coinvolgimento dimostrato da studenti e aziende partner. È stata ribadita l’importanza di iniziative come questa per preparare i futuri professionisti e favorire l’integrazione tra il mondo accademico e il tessuto imprenditoriale.
L’entusiasmo raccolto in questa edizione lascia intravedere una crescita ulteriore per il prossimo anno, con l’intenzione di rendere l’IG For You Challenge un evento sempre più centrale nel panorama formativo e professionale.
Emozioni e traguardi nella finale di University Talent Challenge 2a edizione
Le stanze virtuali sono silenziose. Il bagliore bluastro degli schermi illumina i volti dei partecipanti, inquadrati nelle finestrelle della piattaforma di connessione.
Sullo sfondo, ambienti diversi; qualcuno non è neanche tra le rassicuranti pareti di casa propria. Si vede che i ragazzi fremono, ma i loro sguardi non tradiscono preoccupazione. Le prove delle settimane precedenti li hanno preparati per questo momento. Basta guardarli per percepire la consapevolezza che, nella sfida imminente, ogni decisione strategica potrebbe fare la differenza. Così parte l’ultima fase della University Talent Challenge, dove non si tratta solo di competere, ma di costruire un pezzetto di futuro.
La Challenge è iniziata settimane prima, con un entusiasmo vivo e palpabile. I talenti selezionati hanno superato prove individuali progettate da Artémat per valutare le loro abilità e competenze. Lo Skillgame ha testato le loro hard skill attraverso un quiz multidisciplinare a tempo. Nella video-intervista, ognuno ha dimostrato le sue capacità comunicative e raccontato la propria visione del domani professionale. Con il Web InBasket, hanno invece sperimentato un role-playing manageriale, dimostrando prontezza decisionale e capacità di risolvere problemi complessi. “Ogni sfida affrontata è stata una lezione preziosa”, commenterà Kevin su LinkedIn, condensando in poche, significative parole il valore dell’esperienza vissuta.
Quest’atmosfera sospesa viene interrotta dalla voce calma e rassicurante dei nostri facilitatori, che prendono la parola per dare il via all’ultima, emozionante fase della Challenge. Con precisione e una punta di entusiasmo, spiegano ai partecipanti le regole del Business Game e i parametri di valutazione. L’attenzione dei ragazzi è concentrata su ogni parola: “Quella in cui state per cimentarvi è una simulazione, ma funziona come il mondo reale – dice uno di loro, guardando intensamente la schiera di volti sugli schermi – Non esistono risposte giuste o sbagliate, ma conseguenze. Dovrete essere bravi a prevederle e gestirle”. Le sue parole risuonano come un invito ad andare oltre la teoria, a immergersi nelle complessità del mercato, come veri professionisti. È il momento di trasformare le competenze in azione.
I partecipanti vengono rapidamente indirizzati nelle “virtual room” dei team di assegnazione, dove incontrano per la prima volta i compagni di avventura, con cui cercano subito di stabilire una connessione. Questo “ice breaking” dura solo dieci minuti ma, prima di entrare nel vivo della challenge, crea quel clima di complicità indispensabile per collaborare efficacemente. E così i ragazzi si scambiano informazioni sui rispettivi percorsi di studio e parlano delle loro aspettative professionali. Gettano le basi per un’intesa che sarà decisiva nel momento in cui il gioco avrà inizio.
Alcuni di loro riducono al minimo i convenevoli e si portano avanti. Nel tentativo di ottimizzare gli istanti che precedono il gioco, mettono sul tavolo le prime idee strategiche, abbozzate sui pochi dettagli carpiti durante la presentazione generale del Business Game: la missione è lanciare una start-up virtuale nel competitivo mercato delle app mobile, avendo a disposizione un determinato budget. Giuseppe, uno dei partecipanti, racconterà poi che “essere parte di questo contest è stato più di un’esperienza formativa; è stato un test di competenze in tempo reale, una vera occasione di crescita e networking con altri giovani determinati”.
Rotto il ghiaccio, tutti i team sono pronti e, ognuno col proprio approccio, iniziano a mettere a terra strategie per battere la concorrenza. La competizione è vivace e dinamica, le decisioni si susseguono rapidamente, sia da parte di chi predilige un approccio al mercato prudente sia da parte di chi è animato da uno spirito audace. Round dopo round, le imprese virtuali riconfigurano le loro strategie in base ai risultati del semestre simulato appena concluso. Alla fine di ogni ripresa, infatti, i partecipanti lasciano le loro virtual room per ritrovarsi “in plenaria”. Alla presenza di tutti, i facilitatori prendono la parola per commentare la situazione con l’ausilio delle infografiche prodotte automaticamente dalla piattaforma. Sembra di assistere a una vera sfida di mercato, colpi di scena inclusi! In tutto ciò, gli HR delle aziende partner non si perdono una mossa, studiando le risposte dei giovani manager durante ogni fase della Challenge. “I candidati hanno superato le nostre aspettative, brillanti e motivati”, commenterà con entusiasmo Alessia di A2A. E infatti, ogni decisione presa riflette non solo le competenze, ma anche la capacità di adattamento dei ragazzi.
University Talent Challenge è un vero e proprio format e prevede intermezzi che, oltre a consentire ai candidati di riprendere fiato, aiutano a trovare l’ispirazione per proseguire con maggiore motivazione verso l’obiettivo. In questi “momenti di decompressione”, le aziende partner raccontano visioni e opportunità di carriera, con pitch multimediali che accendono gli occhi dei ragazzi. Dopo aver visto l’entusiasmo dei partecipanti, Denise di Lipari sottolineerà il valore del merito nella Challenge: “Non vediamo l’ora di prendere i contatti con i ragazzi per approfondire la conoscenza”.
Quando suona il gong, alla fine del quarto round, il Business Game è concluso. Trepidanti, i partecipanti attendono in silenzio il verdetto finale, sapendo di aver usato fino all’ultimo grammo di talento. “È stato molto interessante seguire i ragazzi mentre erano coinvolti nei diversi round – commenterà Francesca di Cegeka – Si sono impegnati e devo dire che hanno collaborato tutti in maniera costruttiva”. Ma, si sa, in ogni gara c’è posto per un solo vincitore. Due team in particolare, Pink e Blue, si sono rincorsi spasmodicamente per tutta la prova, inscenando un avvincente testa a testa. Tutti trattengono il fiato, in attesa della proclamazione. Infine compaiono i grafici e parlano chiaro: tra applausi virtuali e congratulazioni, il team Pink viene portato in trionfo.
A seguire, poi, vengono assegnati anche i riconoscimenti che, come l’anno scorso, consistono in quattro tipologie di “open badge”. Quello riferito al “best team” viene conferito direttamente dalle aziende partner, che hanno osservato i gruppi lavorare per tutta la durata del gioco, e va al team Blue. Ad Andrea Laura Bonfiglio, dell’Università degli studi di Brescia, va quello per aver registrato il pitch più efficace, anche in questo caso per decisione degli sponsor. Mentre a Berardo Botteri, dell’Università degli studi di Milano “Bicocca”, va il merito di essersi distinto nello Skillgame iniziale. Ma nessuno rimane a bocca asciutta, poiché, come premio per essere arrivati fin lì, tutti ricevono un open badge di partecipazione. La sera stessa, alcuni dei concorrenti iniziano già a esibirli orgogliosamente sui loro profili LinkedIn. Il bello di questa esperienza, infatti, è che non è una competizione tout court ma una vera e propria occasione di arricchimento personale e professionale. Un modo coinvolgente ed entusiasmante per entrare in sintonia con la dimensione del lavoro in team. Laura, una delle universitarie in gara, la descriverà in un post come “un viaggio di scoperta e crescita che porterò sempre con me”.
E così, dopo gli in bocca al lupo rituali, sia da parte nostra che da parte degli HR, si conclude con successo la seconda edizione dell’innovativo digital assessment contest che punta i riflettori sui giovani talenti universitari italiani. I riquadrini con le facce dei ragazzi si spengono uno dopo l’altro, lasciando lo schermo tutto per noi organizzatori. A questo punto non abbiamo altro da aggiungere, se non un sorriso d’intesa sui nostri volti provati ma soddisfatti. Alla prossima avventura, con nuove sfide, nuovi talenti, nuovi sogni e nuove storie da raccontare.
Dopo tutto, ciò che le aziende vincenti oramai hanno capito è che se un assessment non si rivela come un processo “win-win”, allora fa acqua. Il valore che alimenta il successo delle imprese più floride è frutto di un reciproco scambio: dai dipendenti verso l’azienda e dall’azienda verso i dipendenti. Comprendere e accettare il fatto che il tempo sia una risorsa preziosa anche per il candidato è un ottimo punto di inizio. I percorsi eroici è meglio lasciarli agli avventurieri a caccia di tesori perduti.
Pro-Social Network - un Serious Game per la prevenzione del cyberbullismo a scuola
Nell’ambito di un corso di Dottorato PON Innovativo a caratterizzazione industriale in psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso l’Università della Calabria, tra il 2022 e il 2024 ha preso forma una ricerca-intervento interdisciplinare, che ha coinvolto il gruppo di ricerca in Psicologia del Dipartimento di Culture, Educazione e Società, guidato dalla Prof.ssa Angela Costabile, e ArtéMat;
il lavoro di co-progettazione informatica e psicoeducativa ha portato alla creazione e sperimentazione preliminare di Pro-Social Network, un Serious Game realizzato per promuovere le competenze pro-sociali tra i preadolescenti in ambito scolastico, con focus sull’educazione all’uso dei social media e sulla prevenzione del cyberbullismo.
L’obiettivo del prototipo è promuovere una forma innovativa di Media Education nelle scuole secondarie di primo grado calabresi e nei centri educativi infantili andalusi, in Spagna. Il Serious Game si inserisce in un quadro di sforzi promossi da governi europei, dall’OMS e dall’ONU, per promuovere il benessere psicologico in età evolutiva attraverso l’apprendimento delle life skills a scuola.
Sfondo teorico
In preadolescenza, le competenze pro-sociali comprendono l’empatia, la cooperazione, la gestione dei conflitti e la comunicazione efficace. Sono life skills cruciali per lo sviluppo dei giovani, poiché li aiutano a costruire relazioni positive, a risolvere i conflitti in modo costruttivo e a partecipare attivamente alla comunità scolastica, che rappresenta un contesto chiave per l’apprendimento sociale e per la formazione del carattere. L’uso di interventi basati su Serious Game, come Pro-Social Network, offre un approccio innovativo per raggiungere questi obiettivi.
I Serious Game combinano elementi di intrattenimento con finalità educative, creando un’esperienza di Edutainment immersiva e coinvolgente. L’Edutainment integra contenuti educativi con l’intrattenimento per rendere l’apprendimento piacevole ed efficace. In psicologia, l’uso dei Serious Game ha dimostrato di essere efficace per il coinvolgimento degli studenti e per il miglioramento delle competenze sociali.
Obiettivi
- Educazione all’uso consapevole dei social media per la prevenzione del cyberbullismo.
- Promozione dell’empatia e delle strategie di fronteggiamento del cyberbullismo.
- Contrasto ai meccanismi di disimpegno morale.
- Miglioramento delle competenze pro-sociali in ambito scolastico.
Sviluppo di Pro-Social Network
Il sistema, basato sulla piattaforma Web InBasket®, rappresenta un’interfaccia che permette agli utenti di interagire con uno storytelling attraverso momenti decisionali strutturati ad albero. Il sistema è progettato per valutare la performance in base ad alcuni fattori attraverso le decisioni prese dagli utenti, con una scala preliminare di punteggi associata ai momenti decisionali. Il Web InBasket è una simulazione delle app di messaggistica istantanea, con schermate specifiche per le diverse fasi del gioco.
Storytelling
Pro-Social Network permette ai partecipanti di sperimentare scenari associati al cyberbullismo in prima persona, in modo immersivo e interattivo. Il gioco è accessibile ad un indirizzo URL protetto da credenziali, ed esiste in due versioni: la prima, completa, contiene l’intero storytelling, mentre la seconda presenta i diversi capitoli di gioco progettati. La trama presenta personaggi e ambienti immaginari programmati per rispondere in modo specifico alle scelte del protagonista.
Interazione con la narrazione: Gli utenti interagiscono con i personaggi virtuali attraverso avatar con messaggi simulati, che includono situazioni che i preadolescenti potrebbero affrontare online. In ogni situazione, i momenti decisionali proposti dal sistema si traducono in specifiche opzioni di risposta.
Disegno della ricerca-intervento
Il Serious Game è parte di una ricerca-intervento evidence-based che include una fase di presentazione del progetto rivolta ai dirigenti e ai docenti, un questionario self-report ad hoc per gli studenti, e cinque sessioni d’intervento settimanali dalla durata di un’ora nelle classi delle scuole secondarie di primo grado.
Espansione internazionale
Nell’ambito della co-tutela della ricerca-intervento con il Laboratorio de Estudios sobre Convivencia y Prevención de la Violencia (LAECOVI) della Facultad De Ciencias de la Educación y Psicología, guidato dalla Prof.ssa Eva María Romera Félix, nella Universidad de Córdoba, Pro-Social Network è stato tradotto in spagnolo e implementato nei Centros de educación infantil y primaria spagnoli, come lavoro di replicazione e comparazione cross-nazionale della ricerca-intervento, nel periodo tra la primavera e l’inverno del 2023.
Impatto e Prospettive Future
Il progetto rappresenta un esempio di approccio interdisciplinare per creare strumenti educativi innovativi ed efficaci. La collaborazione tra psicologi e ingegneri informatici ha permesso di sviluppare un Serious Game che non solo educa, ma coinvolge e stimola i preadolescenti, preparandoli a navigare il mondo digitale con consapevolezza e competenza.
I feedback ricevuti da insegnanti e studenti sono stati estremamente positivi. Stiamo lavorando per espandere ulteriormente il progetto e coinvolgere altre scuole e regioni.
OK, il tempo è giusto! Non farti scappare il talento
Ma tu guarda questi…
«Apprezziamo lo zelo del team di recruiting e comprendiamo l’importanza di scegliere il miglior candidato. Tuttavia siamo certi di aver già fornito la quantità di informazioni adeguata alla valutazione del nostro profilo professionale. Teniamo a lavorare per un’azienda che rispetti il nostro tempo come professionisti, quindi non parteciperemo a ulteriori round di assessment».
Questo abstract, preso in prestito da una discussione tra HR americani su Reddit (e tradotto), è una martellata su un tasto dolente ben noto ai membri del reparto Risorse Umane di molte aziende anche di questa parte del globo. Prima di cedere alla tentazione di giudicare, facciamo un passo indietro e contestualizziamo. La richiesta che precedeva una così decisa e inflessibile replica da parte di un gruppo di candidati di un assessment – ovviamente seguita a un classico colloquio-intervista – era articolata così:
- Screening di 15 minuti in video conference
- Valutazione delle competenze e invio di campioni di lavoro
- Seconda intervista di 30 minuti con il responsabile delle assunzioni
- Terzo colloquio-intervista di 60 minuti con il team di leadership, durante il quale i candidati avrebbero dovuto creare e tenere un pitch di 15 minuti, oltre a stilare un calendario di 15 giorni di contenuti, con tanto di esempi concreti (che avrebbe richiesto diverse ore di lavoro ndr.)
- Verifica delle referenze più una valutazione delle competenze di un’ora e un test di personalità aggiuntivo
Non proprio una passeggiata. La ciliegina sulla torta? La posizione aperta non era nemmeno di alto livello e la paga si attestava nella fascia bassa della media. E a proposito di “tasti dolenti”, immaginiamo che adesso ti risuonino in testa le prime, iconiche quattro note della Quinta di Beethoven. Viste da questa prospettiva, le parole di quei candidati non sembrano più tanto sfrontate, vero? Se ci mettiamo nei panni dell’azienda, comprendiamo che la ragione a monte di un processo di assunzione così “strutturato” nasca dalla necessità di acquisire i migliori talenti in circolazione. Ma al contrario, come dimostra la replica dei candidati, sembra studiato appositamente per allontanarli.
Dal punto di vista del candidato, la sovrabbondanza di step nel processo di selezione può risultare frustrante e scoraggiante. È un po’ come andare al supermercato per comprare il latte e scoprire che prima devi attraversare un labirinto, risolvere enigmi, schivare un’enorme palla di pietra e passare indenne sotto una pioggia di dardi avvelenati. E magari arrivare allo scaffale e sentirti dire che il latte è finito! Un processo di assunzione troppo lungo e complesso può dare l’impressione che l’azienda non rispetti il tempo e l’impegno dei candidati, rischiando di allontanare proprio quei talenti che si vorrebbero attrarre. Perché, diciamocelo, chi sa di avere talento quanta voglia può avere di fare l’Indiana Jones del recruiting per un lavoro da impiegato!
Ecco perché è fondamentale ricorrere a strumenti di assessment progettati per ottenere un’efficace individuazione dei talenti in tempi brevi o, per lo meno, ragionevoli. Quelli basati sui principi della gamification possono rappresentare una valida soluzione a questo problema. Ed ecco una rapida cinquina di motivi per sceglierli:
- Efficienza e tempestività: Sono coinvolgenti e permettono di valutare le competenze tecniche e trasversali dei candidati in tempi ridotti. Attraverso simulazioni realistiche e dinamiche, è possibile ottenere un quadro completo delle capacità di un candidato senza necessità di prolungare oltremodo il processo di selezione.
- Coinvolgimento dei candidati: La gamification trasforma il processo di selezione in un’esperienza interattiva e motivante. I candidati non solo dimostrano le loro competenze, ma si sentono anche più coinvolti e apprezzati. Questo può aumentare l’attrattiva dell’azienda (employer branding) e migliorare la candidate experience.
- Valutazione completa e obiettiva: Attraverso scenari di gioco che simulano situazioni lavorative reali, i recruiter possono osservare direttamente come i candidati affrontano problemi, prendono decisioni e interagiscono con gli altri. Questo metodo consente una valutazione più oggettiva e completa rispetto ai tradizionali colloqui basati su domande teoriche.
- Riduzione del drop-off dei candidati: Un processo di selezione lungo e complesso può portare i talenti validi (e consapevoli di esserlo) a perdere interesse o a ritirarsi. La gamification, invece, rende il processo di assessment più interessante e meno oneroso.
- Feedback immediato e miglioramento continuo: Le piattaforme di gamification possono fornire feedback in tempo reale sia ai candidati che ai recruiter. Questo non solo aiuta i candidati a migliorare, ma consente anche alle aziende di affinare continuamente i loro processi di selezione.
In conclusione, per gli HR delle aziende, adottare strumenti di assessment basati sulla gamification vuol dire migliorare l’efficienza del candidate journey, creando al contempo un’esperienza più positiva e coinvolgente per i candidati. Questo approccio non solo facilita l’individuazione dei migliori talenti, ma contribuisce anche a costruire un’immagine aziendale moderna e attenta alle esigenze dei professionisti.
Dopo tutto, ciò che le aziende vincenti oramai hanno capito è che se un assessment non si rivela come un processo “win-win”, allora fa acqua. Il valore che alimenta il successo delle imprese più floride è frutto di un reciproco scambio: dai dipendenti verso l’azienda e dall’azienda verso i dipendenti. Comprendere e accettare il fatto che il tempo sia una risorsa preziosa anche per il candidato è un ottimo punto di inizio. I percorsi eroici è meglio lasciarli agli avventurieri a caccia di tesori perduti.
Creative Thinking - la competenza che muove l’innovazione
Travis e Garrett non chiedevano molto, in quella fredda notte parigina del 2008. Sfiniti e con due ghiaccioli nelle scarpe, volevano solo tornare in albergo.
Anche se era tardi, c’erano ancora parecchie auto in giro. Ma di taxi nemmeno l’ombra. Inutile attendere. Perciò si avviarono a piedi, usando il gps dello smartphone per ritrovare la strada di casa. E rimbalzandosi improperi per ingannare il tempo. Se quei due fossero stati individui qualsiasi, si sarebbero limitati ad aggiungere una tacca alla lista dei rientri sfigati. Due imprenditori creativi come loro, invece, usarono la frustrazione come catalizzatore di una soluzione radicale: un’app che connettesse facilmente passeggeri e autisti privati. La chiamarono Uber.
Lo diciamo in parole povere: il pensiero creativo è la capacità di generare idee nuove e utili per far fronte ai bisogni, nella maniera più consona ai nostri desideri. È un approccio alla risoluzione dei problemi, dunque, che implica flessibilità mentale, apertura all’inaspettato e la capacità di vedere oltre l’ovvio. Mentre assistiamo e partecipiamo alla rapida trasformazione del panorama lavorativo grazie alle automazioni introdotte con l’intelligenza artificiale, la creatività rimane, al momento, una delle poche competenze esclusivamente umane e ineguagliabili. Probabilmente la più importante o, per lo meno, quella a cui teniamo di più e a cui dedicheremmo volentieri la maggior parte delle nostre risorse. Altrimenti perché staremmo “dando vita” a macchine in grado di fare tutto il resto al nostro posto?
Ma facciamo un po’ di anatomia del pensiero creativo. Oggi sappiamo che si tratta di un processo complesso che coinvolge diverse aree del cervello. Mentre una volta si ipotizzava che la creatività risiedesse nell’emisfero destro, mentre quello sinistro fosse il responsabile della logica. Roger Beaty, psicologo cognitivo, ha evidenziato come la creatività emergente sia frutto della sinergia tra i due emisferi cerebrali. Durante il processo creativo, i circuiti neuronali dell’emisfero sinistro e destro collaborano per combinare e ristrutturare le informazioni esistenti in modi innovativi.
Studi neuroscientifici hanno dimostrato che il processo avviene attraverso l’interazione tra la corteccia prefrontale, il sistema limbico e la corteccia parietale. Secondo il neuroscienziato Rex Jung, la creatività è associata a una connettività cerebrale dinamica che permette al cervello di passare da uno stato di pensiero divergente a uno di pensiero convergente. Nella prima fase genera nuove idee fuori dagli schemi, nella seconda le valuta e le perfeziona.
Ora che grosso modo sappiamo cosa avviene dentro la zucca quando frullano le idee, consideriamo il pensiero creativo da una prospettiva antropologica. Abbiamo già accennato che è una caratteristica distintiva dell’essere umano. Steven Mithen, archeologo e antropologo, sostiene che la capacità di pensare creativamente abbia avuto un ruolo cruciale nell’evoluzione umana, permettendo ai nostri antenati di sviluppare strumenti complessi, linguaggi articolati e culture sofisticate. La creatività ha consentito agli esseri umani di adattarsi e prosperare in ambienti diversi, risolvendo i problemi a essi legati o nati in seno alle civiltà che via via si formavano e si evolvevano. In realtà non dovremmo parlare al passato ma al presente, poiché l’evoluzione è un flusso costante che nel suo scorrere sedimenta nuovi problemi e necessità.
E a proposito di corsi (e percorsi), dal punto di vista sociologico, la creatività è influenzata e modellata dal contesto culturale. Mihály Csíkszentmihályi, psicologo ungherese noto per la sua teoria del “flusso” (più che per il cognome che sembra un codice fiscale), ha esplorato come le condizioni sociali e culturali possano favorire o ostacolare il pensiero creativo. Un ambiente che valorizza l’originalità, la diversità di pensiero e l’apertura al nuovo è più propenso a stimolare la creatività rispetto a contesti rigidi e conformisti. E considerando che creatività, innovazione e business vanno in giro insieme come nella canzone Io, mammeta e tu di Modugno (due a braccetto e l’altro appresso), basterebbe solo questo per “triggerare” le imprese a creare ambienti favorevoli dove far sbizzarrire i loro team.
Da qualche parte ovviamente già succede. Per non riempire le righe con le solite Apple e Google, pensa a qualsiasi prodotto, servizio o tecnologia in cui ti sei imbattuto trovandolo davvero dirompente, va bene qualsiasi cosa abbia definito nuovi standard o tracciato percorsi verso orizzonti inesplorati. Ci scommettiamo i buoni pasto che sono nati in contesti che promuovono il pensiero non convenzionale e la sperimentazione. Del resto, non si fa avanguardia dietro le regole di un paradigma.
Il creative thinking è anche essenziale nella risoluzione dei problemi. Quando affrontiamo sfide complesse, la capacità di generare soluzioni innovative può fare la differenza tra il successo e il fallimento. Ad esempio, durante la crisi del COVID-19, molte aziende hanno dovuto ripensare rapidamente i loro modelli di business, trovando modi creativi per continuare a operare nonostante le restrizioni. Com’è andata? A loro molto bene, a giudicare dai bilanci. Il guaio è che, alla nascita, la dote del pensiero creativo non ci viene elargita in egual misura a tutti. Se solo ci fossero uffici pubblici dove richiedere assistenza creativa gratuita su tutto il territorio… Tipo caf.
Comunque, non ci va di passare alla prossima argomentazione senza aver citato almeno un case history. Perciò, Spotify. Non proprio inaspettato, te lo concedo, ma altrettanto emblematico di come il potere del pensiero creativo influisca sul mondo degli affari. L’azienda svedese, lo sappiamo, ha cambiato radicalmente il modo in cui consumiamo musica. Passare da un modello basato sul possesso (limitato) della musica a uno basato sull’accesso (pressoché illimitato) è stata, all’epoca, una scelta controintuitiva ma rivoluzionaria. Questo nuovo approccio non solo ha introdotto un servizio di streaming che consente agli utenti di ascoltare ovunque tutta la musica ma ha risolto il problema della pirateria musicale, offrendo una soluzione legale e conveniente che ha attratto milioni di utenti. Poi la piattaforma ha continuato a innovare introducendo funzionalità come le playlist personalizzate e l’algoritmo di scoperta musicale, migliorando l’esperienza utente e creando nuovi flussi di entrate per artisti e case discografiche. In sintesi, Spotify ha utilizzato il pensiero creativo per ridefinire l’intera industria musicale, dimostrando come l’innovazione possa generare un impatto significativo e duraturo nel mondo degli affari.
Ora che abbiamo la misura del potere intrinseco del creative thinking, possiamo andare avanti e passare a un altro aspetto importante, ossia la connessione con altre soft skill. Il pensiero creativo è strettamente legato al pensiero critico. Il primo genera nuove idee, il secondo le valuta e le perfeziona, affinché siano effettivamente utili. Creative thinking + critical thinking è la “combo” ottimale che permette di sviluppare soluzioni che, oltre a essere innovative, sono anche pratiche e realizzabili. Anche quello con la soft skill comunicazione è un bel “match”. Essere in grado di presentare le proprie idee in modo chiaro e persuasivo, infatti, è fondamentale per ottenere il sostegno degli altri. «Si potrebbe rilasciare un lasciapassare», ricordi? Un buon comunicatore può trasformare un’idea creativa in una proposta convincente, capace di influenzare decisioni e strategie aziendali.
E ora, come puntualmente avviene nella nostra rubrica Skill Mosaico, scatta il momento marzulliano in cui ci facciamo una domanda e ci diamo una risposta: si può allenare il creative thinking dei team aziendali? Sì. Ma prima di dire come ricordiamo le parole di Tina Seelig, docente alla Stanford University ed esperta di innovazione, imprenditorialità e creatività: «il pensiero creativo è un gioco in cui si collegano i punti in modi nuovi». Se è un gioco, allora, quale training migliore se non quello svolto attraverso strumenti di formazione che applicano i principi della gamification? Questo approccio innovativo applica elementi di gioco in contesti non ludici, come l’apprendimento e la formazione, per aumentare l’engagement e la motivazione.
Secondo uno studio pubblicato su Emerald Insight, le attività interattive e dinamiche stimolano i partecipanti a pensare in modo diverso/nuovo. L’implementazione della gamification nei programmi di formazione professionale, dunque, non solo migliora l’engagement dei dipendenti, ma incrementa anche la loro capacità di generare idee innovative rispetto ai metodi di formazione tradizionali. Visti da questa prospettiva, quindi, i Business Game rappresentano un’opportunità unica per sviluppare il pensiero creativo nelle aziende. Inoltre rafforzano anche altre soft skill come il teamworking e la comunicazione.
In conclusione, il pensiero creativo è una competenza cruciale nel panorama lavorativo moderno. Non è solo una skill ma una mentalità che può trasformare le sfide in opportunità e le idee in innovazioni. È il motore che spinge il progresso. Investire nel suo sviluppo, attraverso l’adozione di un approccio orientato alla gamification, è una strategia vincente per qualsiasi organizzazione che aspira a essere e rimanere innovativa e competitiva nel tempo.