STRESS! AH‑AAAH…
Veramente Freddie Mercury diceva Flash!, cantando l’epopea fumettosa di un eroe biondo abbagliante che salva l’universo sfidando a colpi di laser e battutacce un perfido tiranno intergalattico vestito come il Divino Otelma.
Stress, dicevamo: blackout della creatività, intasatore del workflow, arcinemico delle deadline. Non serve viaggiare verso galassie lontane per beccarsi questa specie di subdolo virus: basta aprire la posta elettronica il lunedì mattina. Solo i monaci zen e Carlo Conti ne sono immuni.
Eppure lo stress non è (solo) un nemico. È come il carburante di un razzo: può spingerti in orbita, se non ti fa esplodere sulla rampa di lancio. Tutto dipende da come lo gestisci. Chi regge? Chi crolla? Chi prende in mano la situazione? Non solo questione di nervi saldi ma anche di capacità di autoregolarsi. Ecco perché vogliamo parlarne.
Cosa intendiamo per “regolazione dello stress”
Quando si parla di stress in ambito lavorativo, spesso lo si intende in modo indistinto: troppi stimoli, poco tempo, pressione crescente. Ma per comprenderlo davvero – e valutare chi lo gestisce al meglio – è utile distinguere due competenze complementari:
- Tolleranza allo stress (stress tolerance): è la capacità di reggere la pressione senza perdere lucidità. Serve a non farsi travolgere, a mantenere la barra dritta anche con il mare forza nove. È la base della resilienza, quella che ti permette di “tenere botta” anche nelle giornate più burrascose. Keanu Reeves in qualsiasi talk show: lo travolgono di domande, fan impazziti, aneddoti bizzarri… e lui? Zen. Sguardo calmo, tono basso. Neanche una piega.
- Gestione dello stress (stress management) è il passo successivo. Non si limita a farci resistere, ma interviene attivamente per regolare lo stato interno. Chi possiede questa competenza sa dosare energie, prevenire il sovraccarico e adottare tecniche consapevoli per mantenere l’equilibrio. Serena Williams sotto 5-1 nel set decisivo. Si prende il tempo, rallenta il gioco, cambia tattica. Non subisce la pressione: la orchestra.
La prima è difensiva, la seconda è strategica. Insieme permettono di affrontare situazioni ad alta pressione con maggiore efficacia, evitando reazioni impulsive, blackout decisionali o rigidità che compromettono performance e relazioni.
Stress regulation ≠ autocontrollo
Le due cose non vanno confuse. Resistere alla tentazione di urlare contro un collega che ti ha appena segnalato un errore alle 18:29 di venerdì è autocontrollo. Riuscire a restare lucido dopo tre riunioni (una live tipo death match e due in video-call con la rete a singhiozzi), 2 deadline mancate e una notifica Slack che suona come la sigla dell’Apocalisse è regolazione dello stress.
Tornando seri, l’autocontrollo è il piede sul freno che impedisce di schiantarsi contro una reazione impulsiva, distruttiva, socialmente sconveniente. Trattiene l’impulso grezzo prima che prenda il volante.
La regolazione dello stress, invece, è il sistema di ammortizzatori che impedisce all’intero veicolo di sobbalzare a ogni buca o curva a gomito. Serve a mantenere l’assetto stabile anche su strade imprevedibili, quando l’ambiente esterno cambia di colpo e la tenuta mentale è tutto.
Un professionista che sa regolarsi non solo “non esplode”. Pianifica, gestisce l’energia, distribuisce gli sforzi, mette in pausa (e non in stand-by) l’ansia.
Perché questa skill è cruciale in azienda
Perché lo stress, in azienda, non è un’eccezione. La dura verità. È un rumore di fondo sempre presente. Scadenze che si accavallano, priorità che si ribaltano, imprevisti che non suonano il campanello. La pressione è una costante nei contesti ad alta complessità. E se pensi di poterla sgonfiare con un abbonamento all’ultima app-camomilla da cinque stelle sul play-store, sei come un pompiere che affronta un incendio con la pistola ad acqua.
Saperla regolare fa la differenza tra chi resta lucido e chi si chiude in un loop emotivo. Tra chi prende decisioni ponderate e chi le prende di fretta. Tra chi guida il team e chi rischia di travolgerlo con la propria ansia. Non è (solo) questione di sopravvivenza. È questione di performance sostenibile. In termini concreti, la capacità di regolare lo stress si traduce in:
- Miglior problem solving: la mente resta più agile, anche sotto pressione.
- Leadership credibile: chi mantiene la calma diventa un punto di riferimento per il team.
- Meno errori, più efficienza: lo stress mal gestito distorce la percezione e mina la precisione.
- Comunicazione efficace: chi regola lo stress non alza la voce, alza il livello.
- Cultura organizzativa più sana: lo stress è contagioso, ma anche la stabilità.
Un’azienda che sa valutare e potenziare questa competenza si assicura non solo un ambiente più resiliente, ma anche più strategico. Perché chi riesce a regolare lo stress riesce a far funzionare bene cose e persone in ogni situazione. Ed è esattamente quel tipo di profilo che ogni HR dovrebbe imparare a riconoscere. Magari prima che sia il caos a renderlo evidente.
La WHO ha inserito la gestione dello stress tra le abilità chiave per il benessere lavorativo nel XXI secolo. Non è (più) un nice to have: è un vantaggio competitivo.
Come si osserva nel contesto lavorativo
“Ottima gestione dello stress” è un classico nei CV. Come “ottima conoscenza del pacchetto Office”. Peccato che non funzioni così. Insomma, non è che Nietzsche abbia risolto i suoi problemi solo perché scriveva del superuomo.
Per capire davvero se una persona sa regolare lo stress, serve osservarla mentre lavora sotto pressione. Perché nei momenti di routine questa competenza ovviamente non emerge. È quando il sistema aziendale alza la temperatura che la regolazione dello stress si manifesta. Ecco alcune situazioni in cui si vede chi ha l’aria condizionata interna… e chi suda panico:
- Nei momenti critici: quando qualcosa va storto e c’è da reagire. Chi sa regolarsi mantiene lucidità e comunicazione chiara, anche se il progetto slitta, il cliente impazzisce o l’ennesimo tool “non funziona”.
- Nel day-by-day: non solo durante le emergenze. Anche la gestione delle priorità, il rispetto delle scadenze e la risposta a carichi elevati di lavoro parlano chiaro. Chi si regola bene non trasforma ogni urgenza in un dramma.
- Nelle interazioni con il team: una persona capace di regolare lo stress non “scarica” tensione sugli altri. È quella che, quando il clima si scalda, fa da termostato anziché da combustibile.
- Nella qualità decisionale: lo stress influisce sul giudizio. Osserva chi riesce a ponderare e comunicare scelte anche sotto pressione: lì si vede il vero equilibrio.
Ma un momento, per un pelo non ci sfuggiva: la regolazione dello stress non coincide con la calma apparente. Ci sono poker face che dentro implodono come una supernova. Non è di loro che abbiamo bisogno. La differenza la fanno le azioni osservabili, non il tono della voce. Perciò, nei colloqui, negli assessment e nelle dinamiche di gruppo, la regolazione dello stress non si ascolta: si osserva.
I segnali? Stanno in come la persona si comporta quando qualcosa va storto, quando il tempo stringe, quando la tensione sale. Ecco alcune domande-guida che aiutano a decifrare le sue reazioni:
- Davanti a un imprevisto, si irrigidisce o si adatta?
- Sotto pressione, cambia modo di comunicare?
- Mantiene lucidità e pensiero critico anche nel caos?
- Riesce ad aiutare gli altri a riorganizzarsi?
Le risposte non stanno nelle parole, ma nei comportamenti. E chi sa cosa guardare, vede molto di più.
Come si allena la regolazione dello stress?
Ok, adesso viene il bello. Perché qui entriamo nella nostra comfort zone, fatta di scenari complessi, pressione alle stelle, lancette che ruotano vertiginosamente e persone che imparano a stare al centro del vortice senza farsi travolgere.
Questa soft skill si allena esattamente come una competenza tecnica: in contesti realistici, con ostacoli veri (anche se simulati) e dinamiche che attivano mente ed emozioni.
I business game e le simulazioni gamificate sono perfetti per questo. Mettono alla prova il comportamento sotto pressione, rendono visibili reazioni, scelte e strategie di adattamento.
Perché quando il tempo scarseggia, le variabili si moltiplicano e il team guarda a te per una decisione, non puoi improvvisare e sperare d’azzeccare la prossima mossa, devi ponderare e agire velocemente e in maniera appropriata.
E se riesci a farlo, in quel momento capisci che non stai solo gestendo una dinamica di gioco. Stai regolando te stesso.
Per questo crediamo – e lo conferma anche l’American Psychological Association, nei suoi studi sulla formazione esperienziale – che la simulazione non sia solo uno strumento formativo: è un laboratorio emozionale controllato, dove è possibile sperimentare pressioni simili a quelle reali, ma con la libertà di sbagliare, imparare e migliorare. Insomma, la simulazione non è un rifugio, è un acceleratore.
Allenare la regolazione dello stress in un ambiente simulato non significa semplicemente “fare pratica”. Significa guardarsi dentro, riconoscere il proprio modo di reagire quando qualcosa va storto, quando il tempo stringe, quando le aspettative salgono. È in quel microclima ad alta pressione che impari a decifrare i messaggi in codice che mente e corpo ti trasmettono sotto attacco, senza andare nel panico. Un addestramento che ti insegna a mantenere il controllo del campo e a non confondere il fragore con la fine dell’ordine.
Perché in quei momenti, quando la situazione si fa incandescente, hai due scelte: lasciare il comando al “Generale Istinto” – impulsivo, imprevedibile e spesso rumoroso – o attivare il “quartier generale del pensiero strategico”. E guidare la manovra con lucidità.
E mentre chi gioca impara a leggere i propri segnali interni e a scegliere risposte più consapevoli, chi osserva – coach, HR, assessor – ha davanti una finestra nitida sulla tenuta emotiva, la capacità di adattamento e la prontezza decisionale.
È questo il valore della simulazione: un laboratorio a doppio raggio. Allena e rivela.
Il talento si allena a restare centrato anche sotto pressione. L’azienda scopre chi ha le carte giuste per restarci in situazioni reali. E ha il tempo di capirlo prima che il caos si verifichi davvero.
“It’s not the notes you play, it’s the notes you don’t play” — Miles Davis
In contesti ad alta complessità non vince chi fa più rumore. Vince chi sa ascoltare, filtrare, dosare. Perché il valore della performance – proprio come nella musica – non è dato solo da ciò che si fa, ma da ciò che si sceglie consapevolmente di non fare.
Nel caos, l’istinto ti spinge a riempire ogni spazio, a dire qualcosa, a decidere subito. Ma chi sa regolare lo stress sa che la qualità dell’azione nasce dalla qualità dell’attenzione. E questo richiede disciplina emotiva, visione lucida, capacità di stare in pausa senza perdere il ritmo.
È una forma di leadership silenziosa, ma potentissima. Ed è ciò che distingue chi subisce la pressione da chi la trasforma in energia direzionale.
In una sinfonia aziendale fatta di deadline, scelte complesse e interazioni continue, il talento che sa “suonare lo stress” senza “essere suonato” è quello che tiene insieme l’orchestra. E tu, HR, lo sai, non sempre puoi riconoscerlo a orecchio.
Proattivittà, la skill viva e attiva
Non è fare tanto. E nemmeno avere l’alzata di mano caricata a molla. La proattività è saper agire prima che le cose accadano. È l’arte di leggere i segnali deboli, prevedere i problemi e attivarsi senza che nessuno lo chieda. Se stai pensando a una versione LinkedIn di Nostradamus – “Strategic foresight dal 1503, autore di previsioni che nessuno capisce… finché non succedono” – sei come una Jeep anni 80… parecchio fuori strada. Come direbbe Mary Poppins, tirando fuori un estintore dalla borsetta: “La proattività non è un fuoco da spegnere, è un cerino da non accendere.
3 falsi miti sulla proattività
Dalla macchinetta del caffè alla stanza della stampante, dalla reception all’anticamera del bagno, le leggende d’ufficio su questa skill si muovono veloci e incontrollate, passando di bocca in bocca come un pettegolezzo aziendale. Si dice che:
- È una dote innata → Nossignore, invece si può apprendere e allenare.
- È sinonimo di iperattività → Ma agire tanto ≠ agire bene e con anticipo.
- Serve solo nei ruoli di responsabilità → Anche uno stagista può essere proattivo (e brillare).
Insomma, nei corridoi la proattività viene spesso raccontata male. Sta a noi riscrivere la storia, dotandoci degli strumenti giusti per riconoscerla e coltivarla. Perché i veri talenti non aspettano che il problema si presenti. Gli vanno incontro, come il “Professore” de La casa di carta, con in testa un piano per affrontarli.
Perché la proattività serve nelle organizzazioni complesse?
In un ambiente stabile, essere proattivi è utile. In un ambiente instabile, è indispensabile. Oggi le aziende operano in contesti mutevoli come quei sogni in cui cambia tutto ogni volta che infili una porta. E se ti volti per tornare indietro, puff, la porta non c’è più. In uno scenario così, non puoi aspettare l’ordine scritto o il brief perfetto. Serve lucidità, intuito e l’abitudine ad agire prima che il contesto cambi di nuovo. Chi è proattivo:
- Intercetta le criticità prima che diventino crisi.
- Accelera l’innovazione.
- Aumenta la coesione e la resilienza del team.
In pratica è proattiva quella persona che, quando il contesto cambia forma, non gira e rigira la mappa per capire se esiste ancora un percorso valido ma ne disegna una nuova appena avverte che stanno per manifestarsi i mutamenti. Ed è proprio questo lampo d’anticipo che fa la differenza.
Le skill che nutrono la proattività
La proattività è un mix alchemico di competenze trasversali. Non nasce da una singola attitudine, ma dalla combinazione di più skill che, agendo insieme, trasformano un comportamento reattivo in un atteggiamento strategico. Dentro questo blend troviamo:
- Pensiero critico, per leggere la situazione con lucidità e riconoscere i segnali deboli;
- Iniziativa personale, per agire senza attendere istruzioni;
- Visione sistemica, per valutare le conseguenze sul medio-lungo termine;
- Gestione del tempo, per capire quando è il momento giusto per intervenire.
Proprio come in un laboratorio alchemico, ciò che conta non è solo avere tutti gli ingredienti, ma saperli dosare in modo armonico e calibrato. Perché essere proattivi non significa fare di più, ma fare meglio e prima, con un’intenzione chiara e ben posizionata nel contesto.
E proprio perché nasce dall’interazione tra skill che sono sviluppabili, osservabili e misurabili, la proattività si può allenare. Serve metodo, serve esperienza, servono strumenti capaci di simulare scenari reali. Solo così, da una miscela grezza di competenze, si può innescare quella trasmutazione che rende l’azione istintiva una scelta consapevole. È lì che la proattività smette di essere una dote rara e diventa oro per l’organizzazione.
Simulazioni e gamification: palestra del mindset proattivo
Puoi leggere quanto vuoi su questa competenza, ma se non la sperimenti in contesto, non la sviluppi davvero. Essere proattivi significa agire sotto pressione, in ambienti complessi, dove il tempo è poco e le variabili molte. Solo le esperienze immersive, che simulano scenari realistici, ti mettono nella condizione di prendere l’iniziativa senza seguire un copione. Non basta sapere cosa fare. Bisogna provarlo, sbagliare, capire, correggere. Meglio farlo in un contesto simulato, no? Così puoi osare senza rischiare di fare danni.
Le simulazioni gamificate sono scorciatoie verso la consapevolezza. Perché in quei giochi non stai passando il tempo: stai decidendo, rischiando, collaborando, risolvendo. La dinamica è questa:
- Entri in uno scenario simulato realistico
- Ti ritrovi davanti a una sfida che rompe gli schemi
- Devi agire prima che qualcosa vada storto
- Capisci come funziona davvero la tua mente
Ogni scelta che fai diventa un feedback su chi sei. Il riflesso proattivo è come la memoria muscolare: non è istinto, è tecnica allenata. Più lo alleni in scenari realistici, più ti verrà naturale usarlo quando serve davvero. E le simulazioni immersive possono offrire quel carico progressivo per trasformare ogni incertezza in sicurezza, ogni rallentamento in slancio.
3 domande per sapere se sei una persona proattiva
Non serve un test psicoattitudinale da 90 minuti. Bastano tre domande ben poste – e ben ragionate – per iniziare a capire se nella tua quotidianità professionale agisci con anticipo o per reazione. Ready? Go!
1. Tendi a rispondere o ad anticipare?
Se ti attivi solo quando il problema si è già manifestato, sei un ottimo pompiere. Ma la proattività richiede un altro approccio: quello dell’artificiere.
Chi è proattivo non aspetta l’allarme: osserva i segnali deboli e si muove prima che suonino le sirene.
Ma puoi farlo solo se riesci a “leggere” una situazione e prevederne le criticità prima che si concretizzino.
2. Ti attivi anche quando non hai istruzioni precise?
Chi aspetta il brief perfetto rischia di restare fermo. In un mondo complesso e incerto, è l’iniziativa personale a fare la differenza.
I proattivi non cercano un’autorizzazione, ma una leva. Lanciano idee, fanno il primo passo, esplorano le zone grigie.
Questo perché riescono a individuare da soli un margine d’azione appropriato.
3. Sai distinguere un’intuizione da un’azione impulsiva?
La proattività non è agire a caso o per frenesia. È agire presto, sì, ma con cognizione di causa. Serve rapidità, certo, ma anche lucidità. Chi è proattivo ha un tempismo allenato, perché è il pensiero critico a guidarlo.
Sa distinguere tra una reazione emotiva e una decisione consapevole.
Ti riconosci nelle risposte a queste domande? Ottimo, allora continua ad allenarti.
Hai qualche dubbio? Va bene, dai, perché la consapevolezza è già un primo passo. E se dentro di te ha detto “vorrei esserlo di più”, ecco una buona notizia: puoi, basta allenarsi.
Mini-checklist per team leader e HR
Ok, fin qui abbiamo parlato di proattività individuale. Ma ora tocca a te che guidi i team o valuti le persone: stai davvero creando un contesto che la favorisce?
Fai questo mini-check:
- Incoraggio chi previene o solo chi risolve?
- Lascio spazio all’iniziativa o la scoraggio senza accorgermene?
- Premio le idee o solo le esecuzioni perfette?
- So distinguere chi si attiva da chi reagisce anche bene ma a scoppio ritardato?
Se hai messo anche solo un “ni”, forse è il momento di rivedere la formula. Perché il talento non va solo trovato: va coltivato. E la proattività, come certi fermenti lattici, dà il meglio di sé in un ambiente vivo, attivo, stimolante.
Pensiero analitico: la soft skill che guida le decisioni migliori
“Analizziamo la situazione”. Non è solo un invito all’ordine. È il momento in cui si decide da che parte guardare. Ore 8:45, war room improvvisata nella sede di una multinazionale farmaceutica. I volti sono tesi, le tazze di caffè fumano. La campagna marketing è già partita, ma la logistica arranca e i vincoli normativi si complicano. L’imminente lancio di un nuovo prodotto rischia di deragliare. Ogni reparto ha la sua versione ma manca la sintesi, non c’è orientamento. E i dati, senza uno sguardo che sappia leggerli davvero, sono muti. Qualcuno dovrà scomporre il caos e decifrare i dettagli. E per farlo serve qualcosa di più che l’esperienza: è il momento in cui emerge – nitida e potente – una competenza spesso trascurata nei curriculum: il pensiero analitico.
Che cos’è il pensiero analitico secondo la neuropsicologia
Nel linguaggio delle neuroscienze, il pensiero analitico è una funzione avanzata della mente che consente di esaminare un problema complesso suddividendolo in componenti più semplici e comprensibili. Uno dei riferimenti teorici più noti è il modello dei “due sistemi” elaborato dallo psicologo Daniel Kahneman. Ne abbiamo parlato già altre volte in questo blog. Secondo il premio Nobel, l’efficienza della nostra mente dipende dall’interazione tra il veloce Sistema 1, intuitivo e automatico, e il più lento Sistema 2, che presiede alle attività deliberate e riflessive.
È proprio il Sistema 2 che si attiva quando dobbiamo ragionare in modo logico, valutare dati contraddittori, prendere decisioni ponderate. Questo tipo di pensiero non scatta in automatico: richiede attenzione cosciente, controllo e uno sforzo cognitivo che spesso il nostro cervello cerca di evitare.
Numerosi studi (Evans & Stanovich, 2013; Diamond, 2016) dimostrano che questa abilità è direttamente correlata a capacità come la memoria di lavoro, la flessibilità cognitiva e il controllo inibitorio. In parole semplici: pensare analiticamente significa mettere in pausa l’istinto, trattenere le prime conclusioni e guardare in profondità i dati a disposizione.
Per chi lavora nelle risorse umane, capire quanto un candidato o collaboratore sia capace di attivare questo tipo di pensiero può fare la differenza tra reagire e agire strategicamente.
Dal campo di battaglia alla sala riunioni: il pensiero analitico nella storia
Il pensiero analitico non è una moda nata con i big data. Ha radici profonde e penetranti come le daghe dei generali antichi. Ti ricordi di Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano? L’uomo che sconfisse Annibale e cambiò il destino di Roma nella seconda guerra punica. Scipione non vinse con la forza ma con l’analisi. Fu il primo a capire che il nemico si affronta dove è meno a suo agio. Studiò le mappe, interpretò i movimenti delle truppe, ma soprattutto colse i segnali deboli, (logistici, politici, culturali) che altri trascuravano. Come il potenziale strategico di un giovane pretendente al trono di Numidia, Massinissa, che trasformò da alleato instabile a risorsa decisiva nella vittoria contro Cartagine.
Scipione era un analytical thinker ante litteram e la sua vittoria a Zama fu una lezione di pensiero multilivello: vedere oltre le truppe, oltre le battaglie, oltre l’immediato. Una lezione che vale anche oggi. Perché quello sguardo lucido, capace di leggere la complessità, è lo stesso che oggi cerchiamo nei decision maker del presente, quei professionisti che sanno muoversi negli scenari VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous) con disinvoltura e senza perdersi.
Perché il pensiero analitico è un asset cruciale in azienda
In contesti organizzativi sempre più interconnessi e ad alta densità informativa, il pensiero analitico si rivela una soft skill ad alto impatto. È ciò è determinato dal fatto che consente di:
- Comprendere la radice dei problemi anziché limitarsi ai sintomi.
- Valutare scenari multipli, simulare conseguenze, prendere decisioni informate.
- Lavorare efficacemente con dati, dashboard, KPI, senza perdersi nei dettagli.
In ambito HR, il pensiero analitico non è solo utile, è decisivo. Saper leggere pattern nei dati di engagement, turnover o performance consente di prevenire criticità e indirizzare investimenti formativi mirati. Inoltre, nei processi di selezione e assessment, aiuta a distinguere chi sa affrontare la complessità da chi la subisce.
Skill in sincronia: il pensiero analitico nel sistema del problem solving
Il pensiero analitico è un ingranaggio strategico, ma non può funzionare isolato. Solo quando si muove insieme con altre competenze chiave mette in moto il meccanismo del problem solving. Il pensiero critico è la rotella più prossima, valuta ciò che è stato appena scomposto, ne testa la coerenza e scarta le ipotesi deboli. Il decision-making corrisponde a quella parte di trasmissione che converte l’analisi in azione: seleziona una direzione e imprime al sistema una spinta concreta. Intorno, altre soft skill – come la comunicazione, la collaborazione e la flessibilità cognitiva – fanno da lubrificante, permettendo al sistema di non incepparsi, anche sotto pressione.
Per capire meglio, basta pensare a un project manager che, durante una riunione, scopre che il ritardo non è dovuto alla produzione ma a una sovrapposizione nella catena di approvazione. Senza accusare, propone una riorganizzazione del workflow e un sistema di verifica intermedio. Ecco, questo è pensiero analitico che si traduce in leadership.
Come si osserva il pensiero analitico
Non è una competenza che si lascia intercettare con facilità, soprattutto durante un colloquio. Il pensiero analitico si rivela più nei comportamenti che nelle parole, attraverso segnali che, per un occhio attento, funzionano da marcatori. Lo si coglie quando una persona formula domande che scavano in profondità (“Quali sono le variabili critiche in questo processo?”), struttura mentalmente le informazioni, segmenta, dà priorità, rende espliciti i propri ragionamenti (“Se A, allora B. Ma se interviene C, la sequenza cambia”). Chi pensa analiticamente mostra rigore anche nell’incertezza: non cerca subito la risposta ma prima il contesto in cui una possibile risposta abbia senso.
Tutto questo non si legge in un curriculum. Ma può emergere in scenari simulati, dove la complessità non rimane ferma sul piano teorico ma diventa azione. Ecco perché i momenti di valutazione esperienziale sono una necessità.
Caso studio: trasformare l’engagement in performance
Chiunque sa che dipendenti coinvolti producono risultati migliori. Ma misurare quanto e come l’engagement impatti realmente sulle performance è tutta un’altra storia e richiede il ricorso al pensiero analitico, applicato su larga scala. È esattamente ciò che ha fatto Clarks, lo storico brand di calzature britannico, con una rete retail distribuita in tutto il mondo.
L’azienda ha condotto una massiccia operazione di people analytics, analizzando oltre 450 variabili per ciascun punto vendita. Tra i dati raccolti: livelli di engagement, performance di vendita, composizione del team, anzianità del manager, rotazione del personale. L’obiettivo era ambizioso: individuare i fattori che determinano davvero le differenze tra i negozi ad alte e basse prestazioni.
I risultati non hanno lasciato dubbi: un aumento dell’1% nell’engagement medio dei dipendenti generava, in media, un incremento dello 0,4% nelle performance del punto vendita. Una correlazione forte, statisticamente significativa, e soprattutto traducibile in strategia.
Da questa intuizione analitica, Clarks ha sviluppato un toolkit di supporto per i manager (una raccolta di strumenti e linee guida pratiche) pensato per aiutarli a:
- leggere correttamente i dati di engagement del proprio team;
- intervenire su aree critiche con azioni pratiche e misurabili (es. ottimizzare la composizione del team, migliorare la comunicazione interna, semplificare i processi decisionali);
- replicare nei negozi meno performanti le pratiche più efficaci dei team ad alta efficienza.
Questo caso dimostra in modo inequivocabile che il pensiero analitico, se radicato nella cultura HR, può diventare una leva trasformativa. Non si tratta solo di leggere dati, ma di mettere in relazione informazioni qualitative e quantitative per orientare azioni strategiche. In un settore in cui spesso si agisce per esperienza (o per consuetudine), vedere con occhi analitici ha prodotto un vantaggio competitivo reale, misurabile, replicabile.
La gamification come acceleratore del pensiero analitico
Valutare (e sviluppare) il pensiero analitico richiede ambienti dinamici, in cui il candidato o la risorsa interna possa interagire con variabili complesse, fare scelte, analizzare dati. È qui che entrano in gioco gli strumenti di simulazione manageriale che sviluppiamo noi di Artémat.
Nei nostri Business Game, i player devono gestire un’azienda virtuale in un mercato competitivo. Ogni round implica decisioni strategiche che influenzano KPI finanziari, produttivi e reputazionali. A ogni ciclo, emergono “eventi imprevisti” che impongono una ricalibrazione analitica della strategia.
Questo high-fidelity playground permette agli HR di osservare il pensiero analitico in azione (quali dati vengono letti? come vengono interpretati?) e ai membri del team di lavoro di allenarlo. Così i partecipanti apprendono a isolare variabili rilevanti in ambienti incerti, simulare scenari (“what-if”) e adattare il proprio modello decisionale in base ai feedback del sistema. Un assessment tradizionale non potrebbe fornire lo stesso livello di profondità. Ecco perché strumenti del genere sono fondamentali nelle strategie HR più evolute.
La competenza che “vede attraverso”
Tornando alla war room della casa farmaceutica, sbloccare una situazione di stallo come quella immaginata nell’incipit non è questione di job title, né di anzianità. Non per forza. Ci vuole la capacità di leggere il contesto in maniera analitica. E per questo non serve una lente diversa, ma occhi che vedono diversamente.
Quella descritta è una situazione di fantasia ma fino a un certo punto: casi simili si sono realmente verificati (e si verificano) in grandi aziende farmaceutiche, come dimostra un’analisi condotta da Indegene ed Everest Group (2023). Essa ha messo in luce che fattori come la supply chain, i vincoli normativi e le scelte di marketing possano minare (o salvare) il successo di un lancio, rendendo il pensiero analitico una risorsa decisiva. Insomma, in tempi in cui la complessità è la norma, chi sa leggere sotto la superficie non è solo utile. È necessario.
Predire il potenziale del candidato
Prima viene scaraventato violentemente contro una colonna del dojo. Poi precipita rovinosamente da un grattacielo.
Infine, distratto da una conturbante sconosciuta vestita di rosso, per un pelo non si becca una pallottola in fronte. In Matrix, Neo fallisce tutte le prove cui viene sottoposto.
Sono simulazioni immersive e realistiche (ti suona familiare?) che mettono in luce abilità e debolezze del candidato al ruolo di “eletto”. Quelle prove predicono come egli si comporterà nelle azioni reali. Si fa per dire, trattandosi di Matrix.
Anche i Business Game sono test immersivi e funzionano allo stesso modo: replicano realisticamente contesti aziendali dove i partecipanti, “giocando”, rivelano il proprio potenziale e il modo in cui affronterebbero (per esempio) stress e imprevisti nel lavoro reale.
Ciò significa che sono strumenti predittivi incredibilmente efficaci. Inoltre più un test riproduce in maniera realistica le dinamiche aziendali, più è in grado di predire la performance futura. Tutto ciò è confermato da numerosi studi.
Ad esempio, una ricerca pubblicata su Computers in Human Behavior (2020) ha rilevato che i punteggi ottenuti in un “serious game” mostrano una correlazione significativa con i risultati che poi si ottengono effettivamente sul campo.
Perché funzionano? Perché i Business Game ricreano situazioni reali senza le pressioni di un esame formale. Qui emergono le vere reazioni dei candidati, libere da ansia, paure e auto-censura: come affrontano problemi, collaborano e decidono. E i dati comportamentali che si possono raccogliere in queste sessioni spesso riflettono fedelmente le performance future.
Ma un momento, torniamo un attimo a Matrix: Neo fa cilecca durante i test. Beh, tanto nella realtà quanto nella finzione cinematografica, le simulazioni non sono quiz “pass/fail”. Se Morpheus avesse considerato quel risultato come predizione, il film sarebbe finito dopo neanche un’ora!
Il leader della resistenza umana contro il dominio delle macchine, invece, è l’emblema del recruiter che sa il fatto suo. In ottica HR, infatti, il fallimento nella simulazione non esclude necessariamente un candidato: anzi, può essere un’ottima opportunità per osservare come reagisce all’errore, se impara dall’esperienza e quanto velocemente si adatta.
E poi, è davvero indispensabile che il candidato superi la prova al primo tentativo? In fin dei conti, «la prima volta cadono tutti». Ma se durante il test dimostra in qualche modo che è disposto a spingersi oltre i propri limiti, probabilmente la volta dopo riuscirà nel salto. In senso metaforico e non.
Apertura al cambiamento - la forza dell’adattabilità
Nel 1975, un ingegnere di nome Steven Sasson inventò la prima fotocamera digitale.
Era un aggeggio grande come un tostapane, che utilizzava un sensore per catturare le immagini e le memorizzava su una cassetta, simile a quelle dei Walkman. Se riesci a immaginare un frontale fra un mangianastri e un proiettore di diapositive, questo è grossomodo l’aspetto che aveva.
Sasson sapeva di aver creato qualcosa di rivoluzionario. Ma il management dell’azienda per cui lavorava lo accolse con scetticismo. “Carina l’idea, ma chi vorrebbe mai guardare una foto su uno schermo?” dissero, chiudendo il progetto in un cassetto per continuare a puntare sulle pellicole. Kodak dominava il mercato e non voleva rischiare di cannibalizzare il suo core business.
Il resto è storia. Oggi la fotografia digitale è ovunque e Kodak, un tempo sinonimo stesso di fotografia, ha perso il treno dell’innovazione. Perché il cambiamento non aspetta nessuno.
Perché resistiamo al cambiamento?
La vicenda di Kodak è solo uno dei tanti esempi che dimostrano quanto il cambiamento possa essere percepito come una minaccia, anche nelle organizzazioni più strutturate. Ma perché succede? Perché anche di fronte a segnali chiari e opportunità evidenti, individui e aziende preferiscono rimanere ancorati al passato? Ok, basta domande. Adesso qualche risposta.
La prima, almeno in parte, si trova nel nostro cervello. I neuroscienziati hanno dimostrato che il cambiamento attiva l’amigdala, il “reparto paura e stress” dentro la nostra testa. Viene da lì la vocina che ci sussurra: “Hai sempre fatto così, chi te la fa fare? Metti che poi sbagli”. Succede perché ogni trasformazione, anche minima, viene interpretata come un potenziale rischio per la nostra stabilità. Se quest’area cerebrale fosse una stanza, sulla porta ci sarebbe scritto a chiare lettere: “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quello che lascia ma non sa quello che trova…”.
Secondo una ricerca pubblicata su Nature Neuroscience, al nostro amico grigio piace la prevedibilità. Le situazioni note richiedono meno energia cognitiva e sono percepite come più sicure. Quando un’azienda o un individuo si trova di fronte a una svolta, la console nella stanza dei bottoni si illumina come un abete a Natale e il cervello si barrica dietro paratie automatiche, raggi laser e altri meccanismi di difesa per mantenere inalterato lo status quo.
La chiave per abbracciare il cambiamento
Tuttavia non siamo destinati a essere ostaggi di questi impulsi primitivi. La neuroplasticità, ovvero la capacità del cervello di riorganizzarsi in risposta a nuove esperienze, dimostra che possiamo allenarci a diventare più adattabili. Più siamo esposti a cambiamenti, più impariamo a gestirli con meno stress. O meglio, siamo predisposti al cambiamento. Del resto, senza adattabilità come avremmo potuto sopravvivere attraverso le trasformazioni climatiche e ambientali della nostra storia evolutiva? Ma sterzare allo svincolo della via nuova invece di rimanere sulla confortevole, vecchia autostrada abituale è questione di mentalità.
Secondo Carol Dweck, psicologa e autrice di Mindset: The New Psychology of Success, c’è chi ha una mentalità statica (fixed mindset) e chi una mentalità di crescita (growth mindset). I primi tendono a considerare le proprie capacità come immutabili e temono di fallire, per questo evitano il cambiamento. I loro cugini impavidi, invece, vedono il cambiamento come un’opportunità di apprendimento e sviluppo. Trasportando il concetto nel business, le aziende con una cultura del growth mindset sono innovative, resilienti e pronte ad affrontare le trasformazioni di mercato. Non solo sopravvivono ma prosperano.
Una leva strategica cruciale per le aziende
Ovviamente non è mai il singolo individuo a determinare il destino di un’organizzazione, ma il modo in cui essa coltiva il cambiamento, mettendolo ai primi posti del proprio paradigma culturale e trasformandolo in opportunità. Ecco un dato che parla chiaro: uno studio condotto da McKinsey & Company ha rivelato che le aziende con una cultura aperta al cambiamento hanno una probabilità di successo nella trasformazione digitale 2,5 volte superiore rispetto a quelle con una mentalità rigida. Perché? Perché sono in grado di sperimentare, iterare e adattarsi prima che sia troppo tardi.
E se questo ti sembra un concetto ancora un po’ astratto, eccoti un paio di casi concreti. Prendi Microsoft. Nel 2014 l’azienda era ancora ancorata ai suoi prodotti storici (Windows e Office). Ma l’asse del pianeta IT si stava inesorabilmente inclinando nella direzione del cloud computing. Così ha iniziato a nuotare vigorosamente sfruttando le correnti del mercato, trasformandosi rapidamente in una cloud-first company. Oggi Azure, la piattaforma sua cloud, genera oltre il 50% dei profitti aziendali e dà filo da torceread Amazon Web Services e Google Cloud.
Nel mare magnum delle aziende tech c’è anche chi ha scelto di fare come il salmone, pagandone il prezzo. Fino al 2007, Nokia dominava il mercato dei telefoni cellulari, con una quota globale superiore al 40%. Poi arrivò Android, un ecosistema aperto e scalabile. Google propose a Nokia di adottare il suo sistema operativo ma i vertici dell’azienda rifiutarono. Sembra quasi di sentire quali potrebbero essere state le ultime parole famose: “Abbiamo sempre fatto così”. Il risultato? In pochi anni Nokia è quasi scomparsa da quel mercato. Per restare a galla e poi tornare leader, le toccò comunque e tuffarsi verso altri oceani, attuando una trasformazione.
Le soft skill che l’accompagnano
L’apertura al cambiamento non è una skill stand alone, ma parte di un ecosistema più ampio di competenze interconnesse. Ovviamente sai bene che, nelle aziende, il cambiamento è un po’ come quando all’improvviso ti si accende nel cruscotto una spia dal significato ambiguo e il meccanico fa ipotesi su ipotesi, aumentando il tuo senso di smarrimento e facendoti meditare di passare all’elettrico. Raramente arriva in modo prevedibile e lineare e spesso si manifesta sotto forma di incertezze, criticità da risolvere e nuove opportunità da cogliere al volo. Per questo motivo, per essere davvero efficace, l’apertura al cambiamento deve camminare fianco a fianco con altre soft skill fondamentali complementari.
Il pensiero critico aiuta a valutare con lucidità le opzioni disponibili, distinguendo i rischi reali dalle resistenze infondate. Il problem-solving consente di tradurre l’incertezza in soluzioni concrete, trasformando gli ostacoli in opportunità di crescita. La leadership, invece, gioca un ruolo chiave nell’orientare team e organizzazioni attraverso le transizioni, creando un ambiente in cui il cambiamento non è percepito come una minaccia ma come un’opportunità. Infine, la gestione dello stress e la flessibilità cognitiva permettono di adattarsi velocemente senza perdere di vista obiettivi e strategie. In questo mosaico di competenze, l’apertura al cambiamento è la tessera centrale: senza di essa, il rischio è quello di restare immobili mentre il mondo si muove avanti.”
Da processo stressante a esperienza eccitante
Affrontare il cambiamento non è solo una questione di competenza, ma anche di mindset. La mentalità si può acquisire, consolidare. Per questo la gamification rappresenta un approccio sempre più apprezzato nel mondo aziendale per allenare la flessibilità mentale e l’adattabilità. Grazie a strumenti digital HR come quelli progettati da Artémat, i membri dei team aziendali possono sperimentare situazioni di trasformazione e allenarsi a gestire l’incertezza.
Le esperienze immersive offerte dai nostri tool, per esempio, pongono i partecipanti di fronte a sfide che richiedono di abbandonare pattern abituali, pensare fuori dagli schemi e collaborare per trovare soluzioni innovative. Il gioco, in questo senso, diventa un “campo di prova” sicuro ma realistico, dove è possibile sbagliare senza conseguenze negative e apprendere dagli errori.
Inoltre, la gamification aiuta a innescare un meccanismo di gratificazione immediata, che stimola il coinvolgimento e riduce la naturale resistenza al cambiamento. Con il suo potere di trasformare un processo potenzialmente stressante in un’esperienza motivante, questa metodologia ha dimostrato di essere un eccellente catalizzatore per l’adozione di nuove strategie e la gestione delle transizioni.
Stay open-minded
La storia di Kodak con cui abbiamo iniziato ci insegna che l’apertura al cambiamento non è un’opzione ma una necessità strategica. Soprattutto nei tempi che stiamo vivendo, caratterizzati dalle enormi trasformazioni introdotte dalla democratizzazione dell’intelligenza artificiale. Reinventarsi e adattarsi non solo è possibile, ma può diventare un trampolino verso nuovi successi. Come dimostrano le altre due storie che abbiamo raccontato.
Investire nell’apertura al cambiamento significa costruire una cultura aziendale che valorizzi la curiosità, l’innovazione e il coraggio di affrontare l’ignoto. Significa anche avvalersi di strumenti e adottare approcci che favoriscano e valorizzino questo mindset.
Alla fine, non si tratta solo di sopravvivere, ma di prosperare. Le aziende che abbracciano il cambiamento non solo resistono alle trasformazioni del mercato, ma ne diventano protagoniste, guidandole secondo la propria visione. Perché, come abbiamo visto, il cambiamento non aspetta nessuno: meglio essere i primi a mettere a fuoco il futuro che essere immortalati con gli occhi chiusi in una foto sbiadita del passato.