“Analizziamo la situazione”. Non è solo un invito all’ordine. È il momento in cui si decide da che parte guardare. Ore 8:45, war room improvvisata nella sede di una multinazionale farmaceutica. I volti sono tesi, le tazze di caffè fumano. La campagna marketing è già partita, ma la logistica arranca e i vincoli normativi si complicano. L’imminente lancio di un nuovo prodotto rischia di deragliare. Ogni reparto ha la sua versione ma manca la sintesi, non c’è orientamento. E i dati, senza uno sguardo che sappia leggerli davvero, sono muti. Qualcuno dovrà scomporre il caos e decifrare i dettagli. E per farlo serve qualcosa di più che l’esperienza: è il momento in cui emerge – nitida e potente – una competenza spesso trascurata nei curriculum: il pensiero analitico.

Che cos’è il pensiero analitico secondo la neuropsicologia

Nel linguaggio delle neuroscienze, il pensiero analitico è una funzione avanzata della mente che consente di esaminare un problema complesso suddividendolo in componenti più semplici e comprensibili. Uno dei riferimenti teorici più noti è il modello dei “due sistemi” elaborato dallo psicologo Daniel Kahneman. Ne abbiamo parlato già altre volte in questo blog. Secondo il premio Nobel, l’efficienza della nostra mente dipende dall’interazione tra il veloce Sistema 1, intuitivo e automatico, e il più lento Sistema 2, che presiede alle attività deliberate e riflessive.

È proprio il Sistema 2 che si attiva quando dobbiamo ragionare in modo logico, valutare dati contraddittori, prendere decisioni ponderate. Questo tipo di pensiero non scatta in automatico: richiede attenzione cosciente, controllo e uno sforzo cognitivo che spesso il nostro cervello cerca di evitare.

Numerosi studi (Evans & Stanovich, 2013; Diamond, 2016) dimostrano che questa abilità è direttamente correlata a capacità come la memoria di lavoro, la flessibilità cognitiva e il controllo inibitorio. In parole semplici: pensare analiticamente significa mettere in pausa l’istinto, trattenere le prime conclusioni e guardare in profondità i dati a disposizione.
Per chi lavora nelle risorse umane, capire quanto un candidato o collaboratore sia capace di attivare questo tipo di pensiero può fare la differenza tra reagire e agire strategicamente.

Dal campo di battaglia alla sala riunioni: il pensiero analitico nella storia

Il pensiero analitico non è una moda nata con i big data. Ha radici profonde e penetranti come le daghe dei generali antichi. Ti ricordi di Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano? L’uomo che sconfisse Annibale e cambiò il destino di Roma nella seconda guerra punica. Scipione non vinse con la forza ma con l’analisi. Fu il primo a capire che il nemico si affronta dove è meno a suo agio. Studiò le mappe, interpretò i movimenti delle truppe, ma soprattutto colse i segnali deboli, (logistici, politici, culturali) che altri trascuravano. Come il potenziale strategico di un giovane pretendente al trono di Numidia, Massinissa, che trasformò da alleato instabile a risorsa decisiva nella vittoria contro Cartagine.

Scipione era un analytical thinker ante litteram e la sua vittoria a Zama fu una lezione di pensiero multilivello: vedere oltre le truppe, oltre le battaglie, oltre l’immediato. Una lezione che vale anche oggi. Perché quello sguardo lucido, capace di leggere la complessità, è lo stesso che oggi cerchiamo nei decision maker del presente, quei professionisti che sanno muoversi negli scenari VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous) con disinvoltura e senza perdersi.

Perché il pensiero analitico è un asset cruciale in azienda

In contesti organizzativi sempre più interconnessi e ad alta densità informativa, il pensiero analitico si rivela una soft skill ad alto impatto. È ciò è determinato dal fatto che consente di:

  • Comprendere la radice dei problemi anziché limitarsi ai sintomi.
  • Valutare scenari multipli, simulare conseguenze, prendere decisioni informate.
  • Lavorare efficacemente con dati, dashboard, KPI, senza perdersi nei dettagli.

In ambito HR, il pensiero analitico non è solo utile, è decisivo. Saper leggere pattern nei dati di engagement, turnover o performance consente di prevenire criticità e indirizzare investimenti formativi mirati. Inoltre, nei processi di selezione e assessment, aiuta a distinguere chi sa affrontare la complessità da chi la subisce.

Skill in sincronia: il pensiero analitico nel sistema del problem solving
Il pensiero analitico è un ingranaggio strategico, ma non può funzionare isolato. Solo quando si muove insieme con altre competenze chiave mette in moto il meccanismo del problem solving. Il pensiero critico è la rotella più prossima, valuta ciò che è stato appena scomposto, ne testa la coerenza e scarta le ipotesi deboli. Il decision-making corrisponde a quella parte di trasmissione che converte l’analisi in azione: seleziona una direzione e imprime al sistema una spinta concreta. Intorno, altre soft skill – come la comunicazione, la collaborazione e la flessibilità cognitiva – fanno da lubrificante, permettendo al sistema di non incepparsi, anche sotto pressione.
Per capire meglio, basta pensare a un project manager che, durante una riunione, scopre che il ritardo non è dovuto alla produzione ma a una sovrapposizione nella catena di approvazione. Senza accusare, propone una riorganizzazione del workflow e un sistema di verifica intermedio. Ecco, questo è pensiero analitico che si traduce in leadership.

Come si osserva il pensiero analitico

Non è una competenza che si lascia intercettare con facilità, soprattutto durante un colloquio. Il pensiero analitico si rivela più nei comportamenti che nelle parole, attraverso segnali che, per un occhio attento, funzionano da marcatori. Lo si coglie quando una persona formula domande che scavano in profondità (“Quali sono le variabili critiche in questo processo?”), struttura mentalmente le informazioni, segmenta, dà priorità, rende espliciti i propri ragionamenti (“Se A, allora B. Ma se interviene C, la sequenza cambia”). Chi pensa analiticamente mostra rigore anche nell’incertezza: non cerca subito la risposta ma prima il contesto in cui una possibile risposta abbia senso.
Tutto questo non si legge in un curriculum. Ma può emergere in scenari simulati, dove la complessità non rimane ferma sul piano teorico ma diventa azione. Ecco perché i momenti di valutazione esperienziale sono una necessità.

Caso studio: trasformare l’engagement in performance

Chiunque sa che dipendenti coinvolti producono risultati migliori. Ma misurare quanto e come l’engagement impatti realmente sulle performance è tutta un’altra storia e richiede il ricorso al pensiero analitico, applicato su larga scala. È esattamente ciò che ha fatto Clarks, lo storico brand di calzature britannico, con una rete retail distribuita in tutto il mondo.

L’azienda ha condotto una massiccia operazione di people analytics, analizzando oltre 450 variabili per ciascun punto vendita. Tra i dati raccolti: livelli di engagement, performance di vendita, composizione del team, anzianità del manager, rotazione del personale. L’obiettivo era ambizioso: individuare i fattori che determinano davvero le differenze tra i negozi ad alte e basse prestazioni.

I risultati non hanno lasciato dubbi: un aumento dell’1% nell’engagement medio dei dipendenti generava, in media, un incremento dello 0,4% nelle performance del punto vendita. Una correlazione forte, statisticamente significativa, e soprattutto traducibile in strategia.
Da questa intuizione analitica, Clarks ha sviluppato un toolkit di supporto per i manager (una raccolta di strumenti e linee guida pratiche) pensato per aiutarli a:

  • leggere correttamente i dati di engagement del proprio team;
  • intervenire su aree critiche con azioni pratiche e misurabili (es. ottimizzare la composizione del team, migliorare la comunicazione interna, semplificare i processi decisionali);
  • replicare nei negozi meno performanti le pratiche più efficaci dei team ad alta efficienza.

Questo caso dimostra in modo inequivocabile che il pensiero analitico, se radicato nella cultura HR, può diventare una leva trasformativa. Non si tratta solo di leggere dati, ma di mettere in relazione informazioni qualitative e quantitative per orientare azioni strategiche. In un settore in cui spesso si agisce per esperienza (o per consuetudine), vedere con occhi analitici ha prodotto un vantaggio competitivo reale, misurabile, replicabile.

La gamification come acceleratore del pensiero analitico

Valutare (e sviluppare) il pensiero analitico richiede ambienti dinamici, in cui il candidato o la risorsa interna possa interagire con variabili complesse, fare scelte, analizzare dati. È qui che entrano in gioco gli strumenti di simulazione manageriale che sviluppiamo noi di Artémat.

Nei nostri Business Game, i player devono gestire un’azienda virtuale in un mercato competitivo. Ogni round implica decisioni strategiche che influenzano KPI finanziari, produttivi e reputazionali. A ogni ciclo, emergono “eventi imprevisti” che impongono una ricalibrazione analitica della strategia.

Questo high-fidelity playground permette agli HR di osservare il pensiero analitico in azione (quali dati vengono letti? come vengono interpretati?) e ai membri del team di lavoro di allenarlo. Così i partecipanti apprendono a isolare variabili rilevanti in ambienti incerti, simulare scenari (“what-if”) e adattare il proprio modello decisionale in base ai feedback del sistema. Un assessment tradizionale non potrebbe fornire lo stesso livello di profondità. Ecco perché strumenti del genere sono fondamentali nelle strategie HR più evolute.

La competenza che “vede attraverso”

Tornando alla war room della casa farmaceutica, sbloccare una situazione di stallo come quella immaginata nell’incipit non è questione di job title, né di anzianità. Non per forza. Ci vuole la capacità di leggere il contesto in maniera analitica. E per questo non serve una lente diversa, ma occhi che vedono diversamente.

Quella descritta è una situazione di fantasia ma fino a un certo punto: casi simili si sono realmente verificati (e si verificano) in grandi aziende farmaceutiche, come dimostra un’analisi condotta da Indegene ed Everest Group (2023). Essa ha messo in luce che fattori come la supply chain, i vincoli normativi e le scelte di marketing possano minare (o salvare) il successo di un lancio, rendendo il pensiero analitico una risorsa decisiva. Insomma, in tempi in cui la complessità è la norma, chi sa leggere sotto la superficie non è solo utile. È necessario.